Abbassato il limite di edificabilità in altezza per l'area Ex-Comac dai commissari ad acta. Intanto in città si comincia a pensare ad un ricorso al TAR

Che qualcosa all’ex Comac non andasse per quanto previsto dal piano regolatore generale stava, come si suol dire, nelle cose. Molti cittadini avevano obiettato sulla possibilità di consentire l’edificazione, in luogo dell’ex capannone Comac, di una grande struttura ricettiva. A loro dire, quest’ultima avrebbe deturpato il centro cittadino e il suo panorama e avrebbe congestionato il traffico nella zona contigua. Si era aperto un dibattito a più voci che aveva registrato ripetuti interventi degli opinion-makers locali sugli organi di stampa e sui media. Ora i commissari ad acta, approvando la variante del prg hanno validato l’eventuale edificazione, in luogo del capannone Comac, di una struttura ricettiva. Hanno però ridotto di qualche metro l’altezza massima dell’eventuale manufatto che potrebbe, pertanto, attingere l’altezza di circa 10 metri. La determinazione dei commissari ad acta, a quanto pare, non è piaciuta né a chi è favorevole alla edificazione della struttura ricettiva, né a chi rimane fieramente contrario ad essa. Per i primi, tra cui il sindaco di Soverato Raffaele Mancini, una struttura ricettiva di appena dieci metri di altezza è, in quel sito, decisamente incongrua e inadeguata. Questo ha sostenuto recentemente in un’intervista rilasciata ad un’emittente locale. Per lui l’altezza decisa per la struttura dai commissari ad acta è certamente inferiore alle esigenze di recettività che ad essa andrebbero attribuita. Per i secondi, invece, l’edificazione in luogo del capannone ex-comac di un albergo rimane da evitare essendo gravi i guasti che esso arrecherebbe, indipendentemente dalla sua altezza, al panorama e alla vivibilità del quartiere circostante e, generalmente, dell’intero centro urbano soveratese. L’ultima mossa che questi ultimi o chi politicamente è il loro riferimento potrebbe fare sarebbe di invocare un intervento del Tar contro la scelta dei commissari. Si tratterebbe, in questo caso, di un ricorso con richiesta di sospensiva centrato non sul merito bensì sulle procedure adottate per l’assunzione della contestata decisione. Vero è infatti – come abbiamo avuto modo di rappresentare recentemente su queste colonne – che, avuto occhio a una sentenza del TAR VENETO, SEZ. I del 17 maggio 2002 n. 2104. – il consiglio comunale avrebbe potuto e per molti versi dovuto assumere le determinazioni sulla variante del prg in proprio e non già facendo ricorso ai commissari ad acta. L’incompatibilità di gran parte dei consiglieri comunali per interessi diretti sulla materia non avrebbe dovuto impedire la responsabile determinazione del civico consesso posto che quest’ultimo, a giudizio del Tar Veneto, avrebbe potuto e dovuto trattare la materia in forma parcellizzata e articolata, zona per zona, con l’astensione, di volta in volta, dalle deliberazioni, dei consiglieri incompatibili. Riportiamo qui di seguito, i contenuti della sentenza in questione rintracciabile su internet all’indirizzo www.stelnet.it/Documenti/urbanistica/prg/votazione_prg.htm “Il Tribunale ritiene corretto il sistema di votazione utilizzato per l’approvazione della variante del PRG, suddivisa in due fasi, la prima con l’approvazione zona per zona, con l’astensione dei consiglieri non compatibili per ogni zona, la seconda con la votazione generale della variante di piano. Il sistema è sicuramente idoneo nei Comuni con popolazione limitata, dove sarebbe difficile costituire un consiglio comunale con un numero legale di consiglieri non incompatibili con l’insieme degli azzonamenti. La sentenza fa anche una esauriente panoramica dell’evoluzione del concetto di incompatibilità nelle votazioni delle delibere dei Consigli Comunali partendo dall’art. 279 del T.U. 383/1934, vigente sino all’entrata in vigore della L. 3 agosto 1999 n. 265 (cfr. ivi, art. 28, comma 5) in forza dell’art. 64 della L. 8 giugno 1990 n. 142, fino all’art. 19, comma 1, della L. 265/1999, poi riprodotto dall’art. 78, comma 2, del T.U. approvato con D.L.vo 18 agosto 2000 n. 267, che ha disposto che “gli amministratori … devono astenersi dal prendere parte alla discussione ed alla votazione di delibere riguardanti interessi propri o di loro parenti o affini sino al quarto grado. L’obbligo di astensione non si applica ai provvedimenti normativi o di carattere generale, quali i piani urbanistici, se non nei casi in cui sussista una correlazione immediata e diretta fra il contenuto della deliberazione e specifici interessi dell’amministratore o di parenti o affini fino al quarto grado”. Da una interpretazione poi rigida dell'”interesse proprio”, si è passati a una interpretazione meno rigida secondo la quale “il dovere di astensione gravante sugli amministratori degli enti locali, ai sensi dell’art. 279 del R.D. 3 marzo 1934 n. 383 e dell’art. 290 del R.D. 4 febbraio 1915 n. 148, deve intendersi limitato alle sole adunanze dei collegi deliberanti nel corso delle quali si verifichino le situazioni di incompatibilità ipotizzate dalla norma con riferimento agli oggetti specifici delle decisioni adottate dagli organi collegiali non potendo invece configurarsi – pena la paralisi della vita amministrativa della maggior parte dei Comuni italiani – in riferimento alle deliberazioni che abbiano ad oggetto provvedimenti normativi o generali, ancorché da questi possano derivare, in via immediata e indiretta, effetti favorevoli per terzi, legati agli amministratori comunali da rapporti di parentela e affinità secondo le previsioni delle suddette disposizioni legislative”.

Fabio Guarna

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