IL TERZO TEMPO DELL’ITINERARIO POETICO DI EUGENIO MONTALE (SATURA DIARIO DEL 1971/72)
(link Wikipedia Vincenzo Guarna)
La chiave di lettura per intendere la poesia dell’ultimo Montale è, a nostro giudizio, nella corretta interpretazione del termine “satura” che dà il titolo al primo degli ultimi libri del poeta.
Com’è noto, “satura lanx” fu, originariamente, presso i latini, un piatto misto che si offriva agli dei.
Muovendo da questo impiego originario, il termine “satura” ebbe, secondo Varrone, nella sua prima derivazione letteraria il significato di “componimento miscellaneo”, e solo successivamente, con Ennio, assunse il significato, che ancora oggi comunemente gli si attribuisce, di “componimento poetico che critica le debolezze umane (1) o, più compiutamente, di genere di composizione poetica a carattere moralistico o comico consistente nel mettere in risalto, con espressioni che vanno dall’ironia pacata e discorsiva sino allo scherno e all’ironia sferzante, costume e atteggiamenti comuni alla generalità degli uomini, o tipici di una categoria o di un solo individuo” (2), sicchè, per estensione, è “satira” anche “quanto riveste un carattere più o meno mordace (dal sarcasmo alla caricatura) verso aspetti e personaggi tipici della vita contemporanea” (3).
Ora si dà il caso che, ad una prima lettura, la raccolta intitolata “Satura”, appunto per la mescolanza che la caratterizza di componimenti di contenuto e tono diverso, da quelli satirici secondo l’accezione corrente, a quelli, almeno apparentemente, elegiaci e lirici, autorizza a intendere il termine secondo l’accezione più antica, ossia nel significato di opera miscidiata e varia.
A nostro giudizio, invece, il termine “satura”, nell’accezione montaliana non ha questo e neppure l’altro significato latino (4), o, almeno, non si identifica e esaurisce nell’uno o nell’altro significato, ma, al contrario, li comprende entrambi (meno, il primo) e va oltre.
All’uopo, occorre sviluppare tutta una serie di annotazioni e considerazioni nuove e diverse da quelle sin qui fatte.
Esse a loro volta, oltre che a portare all’acquisizione del significato autentico del termine, aiuteranno a intendere, insieme all’ultima, anche la prima poesia del Montale, il tutto all’interno della vicenda umana e letteraria del poeta e, contestualmente, della realtà e della cultura del 900.
Torna perciò utile esaminare in dettaglio alcuni caratteristici componimenti della raccolta.
Il primo è “Botta e risposta n. 1”.
Qui il poeta, invitato a “spiegare le vele e sospendere l’epoché”, risponde che “uscito appena dall’adolescenza”, egli fu gettato nelle stalle di Augia (5), folte di letame, dall’atmosfera irrespirabile, in un crescendo infernale di “muggiti umani”, dove ha trascorso “metà della vita”, fin quando formidabili avvenimenti – come già il fiume Alfeo all’uopo deviato da Ercole dal suo corso – intervennero a mutare e capovolgere la situazione, non già a renderla migliore:
…. Chi l’attendeva
ormai? Che senso aveva quella nuova
palta? E il vorticare sopra zattere
di sterco? Ed ora sole quella sudicia
esca di colaticcio sui fumaioli,
erano uomini forse,
veri uomini vivi
i formiconi degli approdi?…
Ora che ho detto del suo “prima” e del suo “dopo”, è evidente, conclude il poeta, che il suo ultimo atteggiamento, ossia l’epoché, è irreversibile (d’altronde, a chi importa? Chi l’ascolta? “penso che non mi leggi più”) perché
non può nascere l’aquila
dal topo
È evidente che in questo componimento, come già in “Sogno del prigioniero” di “Bufera”, il poeta ha inteso significare innanzitutto la sua condizione umana, in assoluto, e solo subordinatamente a ciò, la coincidenza di essa con le vicende della storia contemporanea (da una parte gli anni della prima guerra mondiale e quelli del fascismo, nel mezzo gli anni della seconda guerra mondiale e della resistenza – il travolgente fiume Alfeo-, dall’altra parte, infine, quelli dell’ultimo dopoguerra sino ai nostri giorni); anche se esse possono avere esasperato (ma non prodotto e determinato) il suo atteggiamento (6).
Se così non fosse, non sarebbe agevole spiegare versi come:
Lui non fu mai veduto
………… Eppure
non una volta lui sporse
cocca di manto o punta di corona
oltre i bastioni d’ebano, fecali …
Chiaramente “Lui” non è questo o quel personaggio storico (per es. Hitler o Mussolini) o un’istituzione storica (per es. la dittatura fascista), o, almeno, non si esaurisce in quel personaggio e in quella istituzione, ma travalica l’uno e l’altra e assume i segni di una forza immobile, immanente alla storia e, dunque, neppure identificabile con alcun dio delle religioni positive: un’entità oscura, una buia dimensione cui la storia stessa, gli uomini che la vivono e la subiscono e/o esprimono sono pronti a rendere omaggio, quand’anche essa non si cui in nessun modo di loro, né mai si riveli:
La geldra però l’attendeva
per il presentat’arm: stracolmi imbuti
forconi e spiedi, un’infilzata fetida
di saltimbocca….
Ma, a parte questo, resta acquisito che già nell’esordio del libro (dove appunto è posta la poesia in discorso), l’atteggiamento ultimo del poeta si delinea e definisce come caratterizzato dall’ “epoche”.
Questo termine è visibilmente adoprato – beninteso in forma di gioco e di ironia – nell’accezione sofistica aggiornata da Husserl, di “messa tra parentesi del mondo”, ovvero di “sospensione del giudizio” in ordine allo “atteggiamento naturale”, intendendosi con quest’ultima formula, “quel complesso di persuasioni che ci servono a svolgere la nostra vita quotidiana: la persuasione di un mondo esteso nello spazio e che dura nel tempo, popolato di esseri viventi, uno dei quali siamo noi con le nostre rappresentazioni e i nostri dati psichici, con le nostre volizioni e i nostri scopi da attuare” (7).
La seconda composizione da prendere in esame è quella intitolata “La Storia”.
In essa il poeta presenta la “storia”, contro le tesi dell’idealismo e del marxismo, come un seguito di fatti in cui il “prima” e il “dopo” sono un incidente cronologico e niente più (8).
Essa, che, “non è prodotta/da chi la pensa e neppure/da chi l’ignora”,
non si fa strada, si ostina,
detesta il poco a poco, non procede
né recede
e di conseguenza, “non giustifica e non deplora”, e, neppure, “somministra carezze e colpi di frustra”. Insomma
… non è magistra
di niente che ci riguardi.
Accorgersene non serve.
A farla più vera e più giusta.
Orbene, in questo disordine sistematico, qual’ è la posizione ultima del poeta?
Detto con ironia, è quella del “sopravvissuto”. Vero è, infatti, che la storia coinvolge e travolge nel suo flusso l’umanità, ma è vero anche che essa
…. non è poi
la devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte, buche
e nascondigli. C’è chi sopravvivie(9).
E prima si legge:
… gratta il fondo
come una rete a strascico
con qualche strappo e più di un pesce fugge…
Non v’ha dubbio che la sopravvivenza cui in questo caso si fa riferimento, non è quella di chi ha in sorte di vivere, in un’età nuova e diversa, con le idealità i miti o, almeno, i modi di essere e di sentire, le abitudini di un’età tramontata e magari migliore (10).
Essa è, invece, niente più che un incidente, per cui mentre i processi storici si accumulano, incalzano e trascorrono, mentre essi, come una rete a strascico, grattano il fondo, accade, a livello individuale, di sorprendersi, – per essere fortunosamente incappatto presso uno strappo di quella rete -, fuori della rete stessa, fuori della Storia e testimoni di essa, della sua contingenza rispetto a ciò che in assoluto e fuori di ogni illusione, è la condizione umana.
È insomma il conseguimento accidentale di una condizione particolare di “scampato”, di “ectoplasma” (“qualche volta si incontra l’ectoplasma di uno scampato”), un riconoscersi situato, con un’ottica conforme sul mondo, in una sorte di dimensione medianica, non nell’eternità e neppure nel tempo, bensì nell’ “intemporaneo”, come si legge ne “Le stagioni” (la terza delle tre composizioni che, a nostro giudizio, mette conto esaminare nel dettaglio).
In questa composizione, il poeta assume che il suo sogno (e qui sogno sta per qualcosa come poesia – vita – sorte – scelta – ricerca) non è in nessuna delle quattro stagioni dell’anno, nei corrispondenti climi e nelle parallele consuetudini umani e animali che da sempre la poesia ha fatto oggetto del suo canto, sibbene in una zona diversa, l’ “intemporaneo” appunto, ossia il non temporaneo, una sorta di esilio, solo in parte volontario, (seppure c’entri la volontà) dal tempo e dalla storia, e dove le “ragioni” al plurale, ossia tutto ciò che comunemente si ammette e di cui ci illudiamo, finalmente (o forse è inutile) si ottunde e svapora:
Il mio sogno non sorge mai dal grembo
delle stagioni, ma dall’intemporaneo
che vive dove muoiono le ragioni
e Dio sa s’era tempo, o s’era inutile…
Epoche, sopravvivenza nell’accezione che si è detto, intemporaneo, dunque.
Come condizione, status del poeta e come suo punto di vista, giocoso e dolente, sul mondo.
Non v’ha dubbio, a nostro giudizio, che in Montale il termine “satura” ha questo significato, antico, e, insieme nuovo perché più ampio, anzi assoluto, di agnizione, nell’ottica particolare dell”intemporaneo”, dell’inutile e disorganico scorrere del reale, del vano intrico di fatti e avvenimenti, grandi e piccoli. dottrine e fedi, miti e mode, in cui i popoli e i singoli uomini consumano, nel bene e nel male, giorni illusi della loro storia:
Ho contemplato dalla luna o quasi
il modesto pianeta che contiene
filosofia, teologia, politica,
pornografia, letteratura, scienze
palesi e arcane. Dentro c’è anche l’uomo
e io tra questi. E tutto è molto strano.
Tra poche ore sarà la notte e l’anno
finirà tra esplosioni di spumante
e di petardi. Forse di bombe o peggio,
ma non qui dove sto. Se uno muore
non importa a nessuno purché sia
sconosciuto e lontano.
(“Fine del 68”)
Ed ecco, in questa prospettiva, le ideologie, le filosofie, le culture che sostanziano il nostro tempo, raccolte e vanificate in una filastrocca:
lo storicismo dialettico
materialista
autofago
progressivo
immanente
irreversibile
sempre dentro
mai fuori
mai fallibile
… l’eternità tascabile
economica
controllata
da scienziati
responsabili e bene
controllati
………………….
…………………
la guerra
quando sia progressiva
perché invade
violenta non violenta
secondo accade
ma sia l’ultima
e lo è sempre
per sua costituzione
…………………..
………………….
tu dimmi
disingaggiato amico
a tutto questo
hai da fare obiezioni?
(“Fanfara”)
Ecco ancora, per continuare con gli esempi, come sono sarcasticamente viste e riassunte le teorie di Teihlard de Chardin (“paleontologo e prete, ad abundatiam/uomo di mondo”):
…. vuoi farci credere
che un sentore di noi si stacchi dalla crosta
di quaggiù, meno crosta che paniccia,
per allogarsi poi nella noosfera
che avvolge le altre sfere o è in condominio
e sta nel tempo (!) (11).
con l’inevitabile commento:
ti dirò che la pelle mi si aggriccia
quando ti ascolto
(“A un seguita moderno”)
Ecco ancora una giornata di sciopero generale, le strade deserte, “una radiolina dall’altra parte del muro”:
… mi chiedo che ne sarà della produzione
La primavera stessa tarda alquanto a prodursi…
Ed ecco, infine, il grottesco resoconto di una demistificante intervista a Hemingway, “l’uomo delle corride e dei safari”:
… È ancora a letto, dal pelame bucano
solo gli occhi e gli eczemi.
Due o tre bottiglie vuote di Merlot,
avanguardia del grosso che verrà.
Giù al ristorante tutti sono a tavola.
Parliamo non di lui ma della nostra
Adrienne Monnier carissima, di rue dell’Oèdeon,
di Silvia Beach, di Larbaud, dei ruggenti anni trenta
e dei raglianti cinquanta. Parigi Londra un porcaio,
New York stinking, pestifera. Niente cacce in palude,
niente anatre selvatiche, niente ragazze
e nemmeno l’idea di un libro simile.
Compiliamo un elenco di amici comuni dei quali
ignoro il nome. Tutto è rotten, marcio.
Quasi piangendo m’impone di non mandargli gente
della mia risma, peggio se intelligenti.
Poi s’alza, si avvolge in un accappatoio
e mi mette alla porta con un abbraccio.
Visse ancora qualche anno e morendo due volte
ebbe il tempo di leggere le sue necrologie.
(“Due prose veneziane”)
Paiono sfuggire alla definizione di “satura” che siamo andati sin qui illustrando le poesie comprese nella sezione “Xenia” e quelle, analoghe per contenuto e ispirazione, sparse qua e là per la raccolta.
Si tratta, in entrambi i casi, di componimenti, per solito brevi, dedicati, o, meglio, “offerti” dal poeta alla moglie morta, Mosca, come affettuosamente in vita, la chiamavano gli amici e come ora egli si compiace di chiamarla, anzi di evocarla (“Xenia”, appunto, nel senso goethiano di “offerta, dono all’ospite”: ovviamente, in questo caso “ospite della memoria”, o, comunque, “presenza invisibile”):
Caro piccolo insetto
che chiamavamo Mosca non so perché
stasera quasi al buoio
mentre leggevo il Deuteroisaia (12)
sei ricomparsa accanto a me,
ma non avevi occhiali,
non potevi vedermi,
né potevo io, senza quel luccichio,
riconoscere te nella foschia.
Siamo, com’è evidente, in piena elegia. Si tratta, per altro, di una elegia che, – come rilevò lo stesso Montale in una nota intervista radiofonica – “data la sua natura episodica, ricca di particolari, di anfratti, di motivi secondari che poi cercano di riunirsi insieme”, insomma, dato il suo ruolo di riassunto di tutta la vita del poeta per “microscopici mini-episodi”, si caratterizza per una necessità di realismo che comporta l’uso di un linguaggio alquanto diverso da “quello tradizionale”, ossia un linguaggio contesto e sostanziato di termini prosaici (es. infilascarpe, contorno di aragostine, pennello da barba), di termini stranieri (es. hellish fly (13), liseuse), insomma di termini e stilemi della pratica e dell’uso quotidiano (altri esempi: camera “singola”, ticchettio della telescrivente, non sapevi un’acca di portoghese, ecc.).
Un linguaggio, per concludere, in perenne equilibrio tra la poesia e la prosa.
Ma a parte questo, anzi, anche in virtù di questo, ossia del suo carattere di ricognizione realistica della vita del poeta, è agevole osservare che questo tipo di elegia non solo non contraddice ai moduli e alla temperie satirica di cui si è precedentemente discorso, ma addirittura coincide con essi e, anzi, ne costituisce il fondamento e la sostanza.
In effetti, “Xenia” e le poesie conformi formano, per così dire, un canzoniere d’amore. Tragico. E tragico non già perché la destinataria e protagonista è una morta (la circostanza, ancorché dolorosa, è nell’ordine naturale delle cose), ma perché l’itinerario umano, la vicenda a due che per frammenti di memoria recuperano e compongono è una vicenda tutta consumata ai margini dell’esistere:
La morte non ti riguardava.
Anche i tuoi cani erano morti, anche
il medico dei pazzi detto lo zio demente,
anche tua madre e la sua specialità
di riso e rane, trionfo meneghino;
e anche tuo padre che da una minieffige
mi sorveglia dal muro sera e mattina.
Malgrado ciò la morte non ti riguarda.
Ai funerali dovevo andare io,
nascosto in un tassì, restandone lontano
per evitare lacrime e fastidi. E neppure
t’importava la vita e le sue fiere
di vanità e ingordigie e tanto meno le
cancrene universali che trasformano
gli uomini in lupi.
Una tabula rasa…
Si può dire insomma, che “Xenia” e le poesie conformi sono, oltre che elegia, anzi prima che elegia, l’acquisizione e la verifica, nel tessuto frammentario dei ricordi, dell” ‘intemporaneo’ come misura di tutta la vita del poeta e, contestualmente del ruolo catalizzatore esercitato in funzione di questo speciale itinerario umano, da Mosca.
Alter ego del poeta, ma con più autenticità e meno letteratura (“non hai pensato mai di lasciar traccia/di te scrivendo prosa o versi e fu/il tuo incanto…”, talora paradossale e incomprensibile (“Spesso ti ricordavi (io poco) del signor Cap… È strano che a comprenderti/siano riuscite solo persone inverosimili/Il dottor Cap! Basta il nome…”), talora dicevamo, paradossale e incomprensibile nella sua assoluta spontaneità e naturalezza, ma non per questo, sprovveduta e inerme dinnanzi alla realtà.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un insetto miope
smarrito nel bla bla
dell’alta società. Erano ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo zimbello:
di essere visti anche al buio e smascherati
da un tuo senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello
ora che è morta, non meno di prima, Mosca continua a giocare il suo ruolo con la sua struggente, indecifrabile presenza:
Se mai ti mosti hai la liseuse rossa,
gli occhi un po’ gonfi come chi ha veduto
Sembrano inesplicabili queste tue visite mute.
Probabilmente è solo un lampeggio di lenti,
quasi un gibigianni (14) che tagli la foschia.
L’ultima volta c’era sul scendiletto
colore di albicocca un vermiciattolo
che arrancava a disagio. Non riuscì facile farlo
slittare su un pezzo di carta e buttarlo giù vivo
nel cortile. Tu stessa non devi pesare di più.
coi ricordi che suscita:
Il vinattiere ti versava un poco
d’Inferno. E tu, atterrita: “Devo berlo? Non basta
esserci stata dentro a fuoco lento?
Con il suo apparire, in questi ricordi, sempre divisa dalla realtà, ma anche perfettamente consapevole della fluidità e precarietà di quella e, in questa misura, un punto sicuro di riferimento, una certezza serena per il poeta:
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattro occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate
erano le tue.
A leggere attentamente gli “Xenia”, insomma, si ricava netta l’impressione che prima dell’amore, anzi alle radici dell’amore che tenne insieme i due, vi è la comune capacità/disposizione di “prendere le distanze” dalla realtà e dal tempo: intrisa di ragioni e di cultura, costantemente messa in discussione e verificata e, dunque, più fragile e contraddittoria quella del poeta; tutta d’istinto, costituzionale e, in questa misura, più coerente e vera quella di Mosca.
Leader, per dir così, nella vicenda di solitudine e di inesistenza che fu la vita dei due, Mosca consegue con la morte non già l’annullamento ma una collocazione più pertinente e conforme alla sua natura, e da qui, coi ricordi che suscita, con il brivido oscuro della sua presenza, continua a perseguire, anzi rende più intenso, il suo ruolo di guida e punto di riferimento del poeta mentre, intorno a lui come in un gioco lieve e disperato, i confini tra la vita e la morte vacillano e si confondono, la realtà si spezza e si frantuma:
Avevamo studiato per l’aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento
mi provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo morti senza saperlo.
Epoché, dunque, sopravvivenza nell’accezione che si è detto, intemporaneo sono, – nel filtro del gioco e dell’ironia -, la situazione in cui il poeta si riconosce e da cui guarda alla realtà e alla storia nella consapevolezza della suprema incongruità e, forse, inutilità, dell’una e dell’altra.
E anche, lo ribadiamo, sono “satura” in questo senso particolare e nuovo.
Ma soprattutto sono l’estremo approdo di una situazione poetica e di un discorso che, esplosi all’origine, come acquisizione e denunzia, nell’urto con la natura (15), dell’assurdo della condizione umana, della “condizione umana in sé considerata”, come dirà il poeta (16), si sono poi andati svolgendo e caratterizzando, – senza mai mutare o modificare argomento e assunto -, in un lento e costante processo di riduzione e contrazione del paesaggio (da quello ampio, solare, mediterraneo di “Ossi di seppia”, ai luoghi stranieri, perplessi e soli, agli interni, di “Occasioni” e “Bufera”) sino alla sua scomparsa pressoché totale, in “Satura” e “Diario”.
Dentro questo processo si situa e ne è parte, a nostro giudizio, l’assunzione, segnatamente da “Bufera” in poi (ma qualcosa è già in “Occasioni”) nel discorso poetico, di eventi e aspetti della storia contemporanea.
E che si tratti, in questi casi, non di partecipazione (ancorché per negativa) del poeta alle vicende della storia del nostro tempo (ossia di un modo nuovo di intendere e fare poesia), ma soltanto di un momento e aspetto del processo di riduzione del paesaggio, (ossia della prosecuzione della denunzia, – provocata e determinata dal confronto con la realtà -, dell’assurdità della condizione umana), si ricava dall’osservazione che sempre, in Montale, l’evento storico figura come un evento naturale, come un paesaggio, o come la pioggia e il vento o una “bufera” contro cui l’altro non è possibile fare, se non cercare un rifugio, altra opposizione non ha senso se non quella di appartarsi, “prendere le distanze”, ridursi alla massima solitudine.
Diario del 71 e 72
“Diario del 71 e del 72” è, e certamente appare, la prosecuzione di “Satura” (17).
Stessa asserita collocazione del poeta, giocosa e dolente, nello “intemporaneo” più esplicitamente, qui, denominato “fuordeltempo”:
… Io solo un’alba
regolarmente insonne tradii l’ectoplasma
vocale ………………………………….
………………………… Poi la voce
……………………….si fece parola
…………………
Ed a te che sei l’unico
mio ascoltatore dico cerca di vivere
nel fuordeltempo, quello che nessuno
può misurare…..
( “La pendola a carillon”)
Stesso osservare, da questo punto di vista, il complesso scorrere del reale nella fruizione della sua suprema inutilità.
E ancora, tanto per continuare con gli esempi, – come già in “Satura” per Teilhard de Chardin -, stesso sarcastico e vanificante riassunto di una teoria filosofica; nel caso, quella di Benedetto Croce: “trascurando i famelici e gli oppressi/alquanto alieni dai vostri interessi/divideste lo spirito in quattro spicchi/ che altri impastò in uno … (18) (“A un grande filosofo”).
Ma c’è in questa composizione, un fuggevole accenno all’umana moralità di Croce (“foste giusto senza saperlo, senza volerlo”), che congiunto all’assunto, immediatamente successivo, che “lo spirito non è nei libri…/e nemmeno si trova nella vita e non certo/nell’altra vita” in quanto “la sua natura resta/ in disparte…”, nella misura in cui richiama la situazione del poeta (19), costituisce non già una novità di “Diario” nei rispetti di “Satura” (e delle precedenti raccolte), ma, per così dire, un certo privilegiamento, nel libro, di questa tematica.
In effetti, in “Diario”, più che altrove, la solitudine del poeta è presentata, – congiuntamente a una più esplicita e concreta denunzia dei mali che contrassegnano la storia, anzi la cronaca del tempo più vicino a noi, ossia delle stalle di Augia in cui siamo prigionieri -, per quanto possibile, come una scelta, come conseguimento lungamente cercato e praticato, dell’unica dignità possibile nella squallida storia del nostro tempo e, mediamente, nella situazione umana in generale.
È la dignità della “decenza quotidiana”, la più difficile delle “virtù” di cui si parla in “Visita a Fadin” di “Bufera”, che intanto è virtù difficile in quanto è senza eroismo e senza gloria e va scontata giorno per giorno, in silenzio:
Non s’è trattato mai d’una mia fuga, Malvolio,
e neanche di un mio flair che annusi il peggio,
a mille miglia. Questo è una virtù
che tu possiedi e non t’invidio anche
perché non potrei trarne vantaggio.
No,
non si trattò mai di una fuga
ma solo di un rispettabile
prendere le distanze.
Non fu molto difficile dapprima,
quando le separazioni erano nette,
l’orrore da una parte e la decenza,
oh solo una decenza infinitesima
dall’altra parte. No, non fu difficile
bastava scantonare, scolorire,
rendersi invisibili,
forse esserlo. Ma dopo.
Ma dopo che le stalle si vuotarono
l’onore e l’indecenza stretti in un solo patto,
fondarono l’ossimoro permanente
e non fu più questione
di fughe e di ripari. Era l’ora
della focomelia concettuale
e il distorto era dritto, su ogni altro
derisione e silenzio.
Fu la tua ora e non è finita.
Con quale agilità rimescolavi
materialismo storico e pauperismo evangelico,
pornografia e riscatto, nausea per l’odore
di trifola, il denaro che ti giungeva
No, non hai torto Malvolio, la scienza del cuore
non è ancora nata, ciascuno la inventa come vuole.
Ma lascia andare le fughe ora che appena si può
cercare la speranza nel suo negativo.
Lascia che la mia fuga immobile possa dire
forza a qualcuno o a me stesso che la partita è aperta,
che la partita è chiusa per chi rifiuta
le distanze e s’affretta come tu fai Malvolio,
perché sai che il domani sarà impossibile anche
alla tua astuzia.
C’è, infine, in “Diario”, “Annetta”, uno dei più alti prodotti, a nostro giudizio, della poetica e della situazione poetica e umana dell’ultimo Montale.
Annetta, come già Silvia e Nerina del Leopardi, è persona degli anni di gioventù del poeta e, labile frammento come Silvia e Nerina, muore in età verde.
E la sua vicenda, come quella delle due donne del Leopardi, non tanto conta per se stessa quanto piuttosto come simbolo della vicenda e della gioventù del poeta con il loro esito nella solitudine e nel “fuordeltempo”.
Perdona Annetta se dove tu sei
(non certo tra di noi i sedicenti
vivi) poco ti giunge il mio ricordo.
Le tue apparizioni furono per molti anni
rare e impreviste, non certo da te volute.
Anche i luoghi (la rupe dei doganieri,
la foce del Bisagno dove ti trasformasti in Dafne)
non avevano senso senza di te.
Di certo resta il gioco della sciarade incatenate
o incastrate che fossero di cui eri maestra.
Erano veri spettacoli in miniatura.
Vi recitai la parte di Leonardo
(Bistolfi, ahimé, non l’altro), mi truccai da leone
per ottenere il “primo” e quanto al nardo
mi aspersi di profumo. Ma non bastò la barba
che mi aggiunsi prolissa e alquanto sudicia.
Occorreva di più, una statua viva
da me scolpita. E fosti tu a balzare
su un plinto traballante di dizionari
miracolosa, palpitante ed io
a modellarti con non so quale aggeggio.
Fu il mio solo successo di teatrante
domestico. Ma so che tutti gli occhi
posavano su te. Tuo era il prodigio.
Altra volta salimmo sino alla torre
dove sovente un passero solitario
modulava il motivo che Massenet
imprestò al suo De Grieux.
Più tardi ne uccisi uno fermo sull’asta
della bandiera: il solo mio delitto
che non so perdonarmi. Ma ero pazzo
e non di te, pazzo di gioventù,
pazzo della stagione più ridicola
della vita. Ora sto
a chiedermi che posto tu hai avuto
in quella mia stagione. Certo un senso
allora inesprimibile, più tardi
non l’oblio ma una punta che feriva
quasi a sangue. Ma allora eri già morta
e non ho mai saputo dove e come.
Oggi penso che sei stata un genio
di pura inesistenza, un’agnizione
reale perché assurda. Lo stupore
quando s’incarna è lampo che ti abbaglia
e si spegne. Durare potrebbe essere
l’effetto di una droga del creato,
in un medium di cui non si ebbe mai
alcuna prova.
NOTE
(1)-(2)-(3) G. Devoto-G. C.Oli, Dizionario della lingua italiana, Firenze 1971 voce “Satira”, pp. 2067-2068
(4) Montale, in proposito, in una nota intervista radiofonica, successivamente edita in rivista, ha detto: “… io ho giocato, per il titolo, un po’ sull’equivoco, ma non escluderei che significasse anche satira, però le poesie satiriche in realtà sono poche, diciamo così. Invece come presentazione di poesia di tipo diverso, di intonazione e argomento diverso, allora come, oserei dire, miscellanea, la parola poteva andare…”
(5) Le stalle di Augia, re dell’Ellade, contenevano tremila bovi, e per trenta anni non erano state mai pulite. Per ordine di Euristeo, Ercole in un sol giorno avrebbe dovuto liberarle dall’enorme quantità di sterco accumulatovisi. L’eroe, con astuzia, superò questa prova. Infatti deviò dal loro corso i fiumi Alfeo e Peneo e li fece passare attraverso la stalla, che in poche ore fu ripulita.
(6) “Non sono indifferente a quanto è accaduto nell’ultimo mezzo secolo, ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi, anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso” (E.Montale, Nel nostro tempo, Milano 1972, p. 47)
(7)Centro di studi filosofici di Gallarate – Enciclopedia filosofica, Vol. I, A/EQ, Sansoni, Firenze 1957, voce “epoche”, pp. 1945-55
(8)”Da tempo mi sto allontanando sempre più dallo storicismo di tradizione hegeliana, che è poi lo stesso che hanno adottato i comunisti e i crociani. Se la storia è un succedersi di avvenimenti, non c’è ragione di negarla. Se si vuole invece affermare che la storia è una freccia a senso unico, mi pare che questo non è affatto dimostrabile, se non per sezioni molto brevi. Intanto la storia coglie solo qualche aspetto di poco più di duemila anni di un mondo che ne ha centinaia di migliaia. Non possiamo sapere se la direzione della storia è quella prevista dagli storici, anche se essi essendo molto famelici e carrieristi, per qualunque cosa succede, diranno che era prevedibile e che quindi era nella storia univoca. Io credo che la storia proceda secondo leggi che non conosciamo e che forse non esistono” (E. Montale, Intervista rilasciata a Egidio Mucci in “Vie nuove Giorni”, del 2 giugno 1971).
(9)”… Pensa ora/che la Storia ha molti passaggi sottili, ingegnosi corridoi/e uscite…” (ELIOT, Gerontion).
(10)Sopravvissuti in questo senso, invece, appaiono i personaggi (le ombre) che popolano la rievocazione di “Lettera” (bellissima): “Il vecchio colonnello di cavalleria/ti offriva negroni bacardi e roederer brut/con l’etichetta rossa… Gli habitués dell’albergo erano tutti amici/anche senza conoscersi: ma soltanto agli sgoccioli/ di settembre… Spuntavano dall’oscuro i grandi, i dimenticati/la vedova di Respighi, le eredi di Toscanini/un necroforo della Tetrazzini, un omonimo/ di Malpigli… (su tutti il Potestà delle Chiavi, un illustre persuaso/che noi fossimo i veri e i degni avant le deluge/ che poi non venne o fu/poco più di un surplus dell’Acqua Alta) … Si viveva tra eguali, troppo diversi/per detestarsi… Ora all’albergo giungono carovane…”
(11)”Teihlard de Chardin ritiene possibile e reale una ‘evoluzione integralÈ dalla condensazione di una materia originaria, pregna di ogni perfezione vitale, fino alla coscienza riflessa. L’universo va verso un inserimento sempre più vivo e vitale, nella divinità: il ‘punto omega’, termine ultimo dell’evoluzione. L’uomo o meglio il ‘fenomeno umano’ considerato anche nella sua evoluzione sociale, non è il prodotto casuale di un’evoluzione cieca, ma l’esito migliore di un’evoluzione preordinata da Dio per la manifestazione della sua gloria” (Enciclopedia filosofica, citata, Vol. IV, voce Teihlard de Chardin).
(12)La seconda parte del libro di Isaia, quella della “consolazione”
(13)Volo infernale
(14)Sostantivo femm.-milanese: balenio di luce riflesso sulla superficie di un vetro.
(15)”Montale, in uno stile pre-poetico non ha, come molti di questo secolo, una vita spirituale e ideologica o morale da liberare alla luce della poesia. Il suo discorso, cioè il suo dubbio perpetuo, incomincia quando egli ha di fronte il mondo, o quella parte del mondo che l’ora, il clima, le occasioni gli presentano” (G.SPAGNOLETTI, Antologia della poesia italiana, Milano).
(16)”L’argomento della poesia che mi è stata a cuore (e, credo, di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata, non questo o quello avvenimento storico” (E. MONTALE, Nel nostro tempo, cit,, p. 47).
(17)”Nei precedenti (libri) parole quanto mai piene (e pregnanti, come presto o tardi si vede, di intelligenza autocritica), “Ossi di seppia”, “Occasioni”, “Bufera”, più “Satura”: qui una parola ‘-vuota’ e neutra, ‘Diario’, integrata da un puro indice temporale” (G.CONTINI), Risvolto della copertina di “Diario”, Mondatori, Marzo 1973
(18)”Croce creava una storia del linguaggio poetico e identificava l’intuizione con l’espressione respingendo in altro luogo dello spirito … lo spirito filosofico, la logica, e, da un lato, anche l’economia e la morale. Non saprei dire se in un primo tempo quella quadripartizione dello spirito umano mi sembrasse soddisfacente, e neppure se oggi essa mi paia più assurda di altre…” (E. MONTALE, L’estetica e la critica di B.C., Sta in : V. CAPRARIS, E.M, L. VALIANI, Benedetto Croce, Edizioni di Comunità, Milano 1963, p. 40.
(19)”Quello che oggi più ci sorprende è la sua (di B. Croce) difesa della libertà e responsabilità dell’uomo da parte di un filosofo che aveva fatto dell’uomo l’antenna trasmittente dello spirito… Forse il Croce che più ci ha aiutato nei più duri anni della nostra vita entrava in contraddizione coi suoi principi, ma a noi importava soprattutto la fede che scoprivamo in lui, quella zona d’ombra che si avvertiva ai margini del suo pensiero e che faceva pensare alla fede degli stoici… Non ci troverà mai indifferenti la sua fede nell’uomo, la sua certezza che le forze della ragione non saranno mai definitivamente debellate… Più ancora che la sua estetica… è il suo incitamento alla responsabilità morale, a ‘pagare di persona’ che oggi, al di là di ogni convinzione politica o religiosa, ci fa sentire la forza della sua presenza” (E. MONTALE, L’estetica di Benedetto Croce, cit., p. 55-56)
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