Satriano, 1936 e dintorni di Vincenzo Guarna

Introduzione

Vincenzo GuarnaIl brano che segue è paragrafo intermedio di un lungo racconto che l’autore ha scritto tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’70 (senza peraltro mai pervenire alla sua stesura definitiva) e che, meritamente, a suo dire, egli subito dopo ha confinato in un cassetto dove tuttavia giace probabilmente per sempre.
Si tratta di un racconto, a suo modo, “corale” essendone protagonista – nella seconda metà degli anni ’30 e dintorni (1936-1940) – la comunità di Satriano e, a margine di questa la figura del suo Podestà. Un giovane avvocato, quest’ultimo, autoconfinatosi, senza vera convinzione, nel paese d’origine (destinazione, a sua volta e all’epoca, di veri “confinati” ossia dissidenti politici ovvero antifascisti di piccolo calibro e spessore) dopo un promettente inizio di carriera nella capitale dove si era laureato e aveva frequentato, con qualche positivo riscontro i freschi ambienti intellettuali interessati, soprattutto, alla “nuova arte” del cinema.
Un’ultima annotazione. Lungo il contesto del racconto sono presenti, qua e là, abilmente fusi e mimetizzati al suo interno, brevi passi di autori più e meno noti della letteratura italiana (Giovanni Villani, Ludovico Ariosto, Gabriele D’Annunzio, etc.). È un “divertissement” cui l’autore indulge senza alcun fine speciale e che, per dire, trova riscontro più frequentemente di quanto non si supponga, in molti prodotti in prosa e in verso della nostra letteratura.
Nel brano che riportiamo in calce questo, per così dire, “escamotage” è presente dove si parla del pensiero della morte divenuto in Satriano, come effetto della missione dei padri Redentoristi di Sant’Andrea, “pensiero se non predominante, dominante” (il flash è tratto dal saggio che B.Croce dedica al Foscolo in “Poesia e non poesia”); nella descrizione della figura fisica di padre Anoia nell’atto in cui il religioso si accinge a tenere nel Duomo del paese, la formidabile predica conclusiva della “missione” da lui guidata (il brano è desunto dal ritratto che Alessandro Manzoni fa di Padre Cristofaro – vedi “I Promessi sposi”); quindi in epilogo, nell’endiadi “le colonne e i simulacri”, tratta da Leopardi

SATRIANO, 1936 E DINTORNI

di Vincenzo Guarna

Tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1938 Satriano, a un tratto, si immerse nell’inverno e nel Medioevo.
Spazzata da un gelido vento di tramontana l’aria si fece tesa e vetrina, i giorni divennero cupi e brevi. E al tramonto lente processioni percorsero salmodiando le strade, si fermarono supplici ai calvari, s’incontrarono ai crocevia e ivi sostarono ad ascoltare predicatori estemporanei compitare dall’alto di una scala o di un balcone, terrei in volto per il clima e la novità dell’esperienza, lunghi fogli dal linguaggio apocalittico intriso di esclamazioni.
Il fenomeno, ristretto all’origine ai ceti e alle generazioni, per così dire, di mezzo e caratterizzato da un non so che di gioco, ben presto si incupì e crebbe e coinvolse l’intera comunità.
Si può dire che il pensiero della morte divenne in tutti se non predominante, dominante e, con esso, l’intero suo corteo di umane reazioni diverse a seconda dell’indole e della situazione dei singoli e dei gruppi.
Si videro antiche inimicizie trascolorare e dissolversi come nebbie d’alba; altre farsi più dense e feroci; delinearsi nuovi patti; infrangersi solide consuetudini. E ben presto corsero voci di nascite mostruose e di eventi straordinari nei paesi vicini: e chi rinvenne sul dorso di una foglia portata dal vento nel suo balcone, chiaramente disegnata la spirale di un serpente; chi tornando a sera, dal suo lavoro in montagna, travide nell’intrico del bosco un piccolo animale di forme ignote e orribili.
Fu anche, quello, il momento di maggior fortuna dei più poveri, ossia di quel particolare ceto sociale che erano a Satriano i più poveri: non mendicanti ma piuttosto clientes di una o più famiglie, da quelle meno bisognose a quelle più agiate e dalle quali, in cambio delle prestazioni più varie e diverse, ottenevano soccorso, raramente in danaro, più spesso in natura o in altri modi (una bottiglia d’olio non del migliore; un fiasco di vino sul punto di andare a male; un grumo di fagioli e di ceci spesso stantii. Ma anche un intervento presso le autorità per il disbrigo di una pratica o per la concessione di un contributo “governativo”, come usava dire, e altro ancora).
Nella congiuntura, il soccorso essi l’ottennero con più frequenza e maggior garbo del solito e fu meno parsimonioso e, in alcuni casi, della migliore qualità. Ancorché fossero divenuti meno umili e talora quasi biechi e torvi nel richiedere e meno solleciti e persino restii nel proporre e rendere i loro servigi.
Radice e alimento di questo complesso fenomeno era stata ed era l’opera di tre padri Redentoristi del vicino convento di Sant’Andrea venuti in paese a svolgere, – come è nei compiti dell’Ordine – una delle loro “missioni” intese a potenziare il sentimento religioso dei fedeli e a promuovere tra quelli un’intensa vita cristiana.
Efficienti, pieni di zelo, infaticabili, essi, senza perdere tempo, già dal primo giorno del loro arrivo si erano messi all’opera. E uno, padre Conca, aiutato dalle suore di Maria Ausiliatrice, aveva preso ad attivare le donne e i ragazzi; un altro, padre Silva, aiutato dall’arciprete, gli uomini; il terzo, infine, padre Anoia, il leader per così dire dei tre, aveva dato inizio, la sera nella chiesa matrice alla sua predicazione (giudicata subito e a tutti i livelli, possente e straordinaria) che ebbe la funzione di coordinamento della “missione” e diede ad essa il tono, la tensione e il fervore che la caratterizzarono.
In realtà, se grande fu il successo di padre Conca e di padre Silva, quello di padre Anoia fu addirittura eccezionale: le sue prediche conquistarono rapidamente tutti, dalla più oscura beghina ai notabili dell’una e dell’altra fazione, ai due dottori. Ascoltarle divenne, la sera, un’occasione da non perdere a nessun patto.
Persino il Prof. Bevilacqua, trovandosi, com’era solito, a Satriano, pur premettendo d’essere “idealista”, anzi “attualista” e, dunque “ateo nel senso non volgare del termine” non si astenne dall’ascoltarne una e, ascoltatala, dal lodarne, – a malgrado, come disse “una qual certa carenza di rigore logico”- il “vigore fantastico”, la “potenza delle immagini”, insomma “l’altissima qualità letteraria”.
Erano, per farla breve, veramente “da innalzar l’idea” come notò Antonio Ferraro.
Certo fu a causa delle sue nefaste condizioni di mente e non già per non essere egli, d’abitudine, frequentatore della chiesa e delle sacre funzioni che il podestà quasi per tutta la durata della missione se ne privò, prediligendo (con scelta che le rammaricate esortazioni e sollecitazioni piovutegli da mille parti, perché ne desistesse non valsero a modificare e che non mancò di suscitare delusioni e sfavorevoli giudizi in tutti gli ambienti riguardo la sua intelligenza e cultura) di percorrere contemporaneamente su e giù il paese fatto, per la circostanza nuovamente e meravigliosamente deserto e come abbandonato, vuote le strade lacerate dal vento, sbarrate le porte, senza fumo i camini sui tetti.
Quando però, nella penultima predica, lo stesso padre Anoia, dal pergamo si dolse della sua continua assenza, gli fu giocoforza mutare orientamento e l’ultima sera in compagnia della moglie orgogliosa e raggiante si portò in chiesa insieme a tutta la comunità locale. Quando vi giunse, – in ritardo perché sino all’ultimo, per una sorta di amaro e giocoso puntiglio, da quelli indotti, aveva resistito agli inviti della consorte -, le funzioni preliminari erano concluse e già padre Anoia, montato sul pergamo stava immobile, eretto il busto, il capo chino, le mani afferrate all’orlo della balaustra, non in preghiera, ma teso, assorto, remoto.
Entrati in chiesa i due subito si separarono: la moglie attenta a non fare rumore e provocare scompiglio raggiunse il suo posto, tra le file dei banchi della navata centrale, nella zona che, per l’uso cui essa era adibita, l’arciprete, dottamente ma impropriamente chiamava “matroneo”; il podestà rimase con gli altri uomini in piedi nell’androne della navata stessa, nella zona cioè che, insieme con le navate laterali, indicheremo, sempre con l’occhio all’uso cui erano adibite e per non apparire men dotti dell’arciprete, anche se parimenti impropri, come “androneo”. Sotto padre Anoia la chiesa era gremita sino all’inverosimile, il silenzio era folto, compatto, appena segnato, qua e là, da un bisbiglio subito dissolto, da uno strusciare di panca subito spento. Si udiva in alto attraverso le nere vetrate, cupo, sincopato, il rumore del vento.
Poi, perdurando il silenzio, il vento parve interrompersi e padre Anoia, eretto il capo, proteso con gesto affabile e tuttavia nervoso il braccio destro, si accinse a parlare.
Era un uomo più vicino ai cinquant’anni che ai sessanta; il capo aveva nudo, salvo una piccola corona di capelli che vi girava intorno, le guance e il mento incavati, rilevata la parte superiore del volto, grandi e come ardenti d’una interna febbre gli occhi.
Disse: “un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o cari fedeli, e vi confesso che non senza un’estrema resistenza mi ci sono addotto troppo pesandomi di dovervi contristare così tanto l’ultima sera che mi intratterrò con voi”.
Un sentimento misto di preoccupazione e di lutulenta ammirazione percorse la folla.
Riprese padre Anoia: “solo in pensare a quello che vi devo dire sento agghiacciarmisi, per grand’orrore, le vene. Ma che gioverebbe il tacere? Il dissimulare che varrebbe? Ve lo dirò …”
E fece una pausa.
Ormai tra gli ascoltatori l’ammirazione aveva ceduto il campo alla preoccupazione, questa si tingeva di sgomento e già alcuni s’interrogavano sulle proprie colpe e su quelle del vicino; altri pensarono a qualche grave delitto che li avesse coinvolti e del quale ancora fossero ignari; altri si guardarono negli occhi; altri elusero l’altrui sguardo.
Continuò padre Anoia: “ve lo dirò … tutti, quanti siamo qui, o giovani o vecchi, o uomini o donne, o ricchi o poveri, dotti e indotti, tutti un giorno dovremo morire: “statutum est hominibus semel mori …”
Era, quanto andava dicendo padre Anoia, con piccoli adattamenti, l’esordio della prima predica del noto Quaresimale che il Gesuita Fra’ Paolo Segneri (1624-1697) tenne nel Duomo di Modena in occasione della Pasqua 1667 e, precisamente, di quella che pronunciò il Mercoledì delle Ceneri. Ma nessuno lo seppe e tutti, invece, appreso in che consistesse il funestissimo annunzio, provarono un senso di sollievo subito, peraltro, venato di rimorso.
Nel podestà esplose, in forma esasperata, l’usato disagio: egli si sentì stretto dalla folla e desiderò fuggire via, ma rimaneva immobile e gli sembrava di soffocare.
Padre Anoia incalzava: “ohimé, che veggo? Nessuno di voi si scuote a tanta notizia? Nessuno cambia di colore? Nessuno si muta in volto? Persino in cuor vostro ridete di me che vengo a presentarvi come novità una cosa così nota? Che ognun sa? Quis est homo qui vivet et non videbit mortem?”
Sono tra la gente, più numerosi di quanto comunemente si pensi, attori e attrici di singolare e schietta tempra: affatto ordinari d’abito e d’aspetto essi vivono, momento per momento, la loro vita, per quanto trita e banale essa possa essere, con una capacità di immedesimazione, una tensione scenica, un sentimento del tempo, un istinto del pubblico per niente inferiori a quelli del grande interprete di teatro o dell’istrione più consumato.
Fu un’attrice così, una buia beghina che, avendo fatto seguire padre Anoia, alla sua citazione in latino, un silenzio duro e minaccioso incombente sulla folla, scattò in piedi dal suo posto in prossimità del presbiterio e con voce acuta e disperata, protese al cielo le braccia gridò: “Signore pietà, pietà Signore, pietà …”.
A quel grido, nella folla fu dapprima un ondeggiamento, presto seguito nel matroneo da un incrociarsi di voci, alcune interrogative, altre perplesse, altre già commosse. Poi d’un tratto esplosero, da molte parti, pianti di bambini e strepiti di donne cui dagli andronei si sovrapposero robuste voci invitanti alla calma che confusero e peggiorarono la situazione. E fu chi credette a qualche svenimento improvviso fra la folla e girò interrogativamente il suo dubbio al vicino il quale, scambiata la domanda per notizia, la passò in questa forma ad altri che, pessimista per natura, si convinse e riferì d’un decesso improvviso; chi temette che lo assediasse, rimanendogli ignoto un qualche orrendo prodigio; altri si persuase d’avere avvertito i preludi di un sisma, altri ancora pensò fosse giunta e si stesse diffondendo notizia d’una qualche esterna catastrofe.
Fu un momento terribile. Già la folla era sul punto di slanciarsi verso le uscite: si sarebbe travolta, pestata, intasata, accoppata, dilacerata, ne sarebbe derivata una carneficina.
Per fortuna, padre Anoia che per la sua posizione eminente aveva potuto avere la massima contezza della situazione nella rapida successione delle sue fasi, superato agevolmente un primo momento di imbarazzo e disorientamento, intervenne in tempo a decantarla. E fosse perizia o solo un felice istinto, lo fece nel migliore dei modi, senza scadere, cioè, in lunghe spiegazioni e vane esortazioni alla calma, ma riprendendo, facendo suo e amplificando – e in questa forma implicitamente chiarendolo e illustrandolo – l’evento che l’aveva provocata: “sì – gridò con voce robustissima – pietà o Signore, pietà della nostra forza che è debolezza e della nostra debolezza che è forza, pietà della nostra povertà che è ricchezza e della nostra ricchezza che è povertà, del nostro odio e del nostro amore, del nostro orgoglio e del nostro pregiudizio …”.
La tensione della folla prese a sciogliersi: le voci, lo strepito calarono subito di tono, diradarono; rimase un brusio diffuso, il pianto disperso d’un bambino e ancora qua e là qualche colpo di tosse. Poi fu nuovamente silenzio.
Continuò padre Anoia protendendo il capo e le braccia verso il cielo: “cosa altro, Signore, possiamo offrirti se non la nostra domanda di pietà? Hai visto, stasera, o Signore, la nostra fragilità, la nostra viltà, la nostra inettitudine, e forse è stato questo un modo della tua imperscrutabile sapienza per dirci, ancora una volta, che siamo nulla, per ripetere alle nostre coscienze disperse e ottenebrate che siamo polvere: memento homo, memento homo quia pulvis es”.
Mai più l’uomo è disposto al pianto di quando sia emerso, indenne, da un grave spavento: intanto che il suo cuore, come avulso da tutto il resto, continua anzi accentua il ritmo frenetico, il nodo dei suoi nervi si discioglie, la sua mente si sgombra, gli attraversano l’anima mille rivoli di ignota tenerezza.
Simile se non uguale a questo era, in quel momento, lo stato degli ascoltatori di padre Anoia che intanto, passato dal Segneri al Bartoli (1), con voce triste e arcana diceva:
“tutti siam qui passeggeri, e tutti, chi prima e chi poi, arriveremo al termine. Ma corrano, com’è in uso, le vite e le età comparate tra sé, e perciò altre lunghe, altre corte, non per tanto è vero che quelle e che queste sono ugualmente un medesimo viaggiare che finisce. E ancor qui ‘dies diei eructat verbum’, perché l’un giorno ci rammenta la manchevolezza dell’altro e tutti insieme il consumare della vita …”
Mentre egli così parlava, una donna e poi più in là un’altra e un’altra ancora più in là, si misero a piangere: e quel pianto, come un contagio, dapprima incerto ed esitante, poi sempre più rapido e deciso, divagò, si espanse invase tutto il matroneo. Poi rimbalzò nella navata laterale destra e qui, per un istante, indugiò, ristagnò, parve rompersi. Ma tosto, ripreso vigore, si mosse, scivolò, serpeggiò, dilagò irrefrenabile.
“Vi sarà certo avvenuto di viaggiar fuor del vostro paese; e certo avrete osservato mille varietà di scene, or belle, or brutte, e paesaggi d’ogni genere, mai visti prima. Tutto questo ‘iuvit spectare, delectavit parumper attendere; dum attendis pertransisti’. Fatta sera e giunti alla meta che vi rimase di tutto ciò? Nulla, certo, tranne una debole memoria …”
Ormai tutti, – si direbbe l’intera comunità satrianese – piangevano e tutti, – pur nella varietà dei pianti conformi all’indole e allo stato di ciascun piangente – ponendo, chi più chi meno, una schietta cura a non produrre moto o suono oltre al necessario. Chi esibiva, come un trofeo, le sue lacrime; chi si provava a respingerle dietro un vano sorriso che presto si mutava in una smorfia dolorosa. Qui un uomo ancora asciutto, vistosi a lato il suo nemico col volto umido e stravolto, gli tendeva in un impulso di fraternità la mano e, in atto, anche il suo volto si storceva e gli occhi si inondavano di lacrime. Là una donna chinava in forma di estrema spossatezza il volto sulla spalla della sua vicina e tosto violenti sussulti la scuotevano tutta. E c’era chi, gli occhi chiusi, enfiava le gote e poi più e più volte soffiava dalle labbra contratte. E chi, ostentando indifferenza, indirizzava con inusitato interesse lo sguardo ai rosoni del soffitto finché la sua vista si velava e annegava in una pozza di lacrime costringendolo a chinare, come in atto di dolorosa umiltà, la fronte sul petto. Si videro donne abbracciarsi e mescolare lacrime e sospiri e uomini di fiera tempra fare al viso coppa delle mani ed esprimere in questa posa un gemito sottile interminato. Altri estrarre dalla tasca il fazzoletto e portarselo al naso e soffiarvi dentro ripetutamente e intanto con gesto furtivo asciugarsi coi lembi l’umidore delle gote. Altri ancora mordersi ora le labbra, ora le dita, ora le mani contratte. E donne, poggiata l’umida bocca sulla spalliera del sedile antistante, inciderne coi denti il legno e rigarlo e roderlo; altre ravvilupparsi e scomparire nel buio del loro scialle. E ancora, uomini tossire, altri aderire alle colonne e ai simulacri e altro ancora.
Anche il podestà, vile, tenero, vergognoso in mezzo a quel lago di pianto, poggiato ad una colonna, piangeva: senza memoria, senza convinzione. E intanto – come chi desto a mezzo di un triste sogno vede, durandone l’errore, rompersi e dileguare le immagini dolorose – egli guariva dal suo interno male, si lavava, per così dire, della sua solitudine.
Vide padre Anoia, con un leggero moto di sorpresa tutto quel piangere, lo scrutò incerto, lo osservò interessato e già stimandolo, – del resto non senza una buona dose di ragione – per un suo nuovo e personale successo, naturalmente gli piacque di sostenerlo e prolungarlo, mirabilmente, in questo, soccorso e quasi forzato dalla parola facile e sonora. Però disse: “sunt lacrimae rerum … e allora, fratelli e sorelle in Cristo … piangiamo … in quest’angolo perduto della Terra, da questo oscuro margine della Storia, in questa scheggia del Tempo, piangiamo: per l’amore reso e per quello negato, per i torti fatti e per quelli patiti, per il bene lontano e per il male vicino, per il bene vicino e il male lontano, fratelli e sorelle in Cristo piangiamo. Del nostro odio e del nostro amore, delle onte e delle offese, delle vendette e delle ire … fratelli, sorelle, piangiamo del nostro pianto….”
Così predicava padre Anoia…

Vincenzo Guarna

(1) Daniello Bartoli (1608-1685). Altro scrittore e predicatore gesuita. La sua opera maggiore è la ISTORIA DELLA COMPAGNIA DI GESU’ pubblicata tra il 1653 e il 1673. Interessanti anche le sue prediche, alcune raccolte in un Quaresimale che andò in gran parte perduto in un naufragio.
I frammenti della predica di Padre Anoia riportati nel soprastante testo sono alcuni, mutuati dal Segneri (il primo, quello immediatamente successivo e il suo prolungamento: “ohimè che veggo”) e altri dal Bartoli (quello che ha inizio con “siamo qui giù tutti passeggeri e tutti….” e quello che compare subito dopo: “vi sarà avvenuto etc.”)
Sono propri di Padre Anoia i restanti ossia quelli che servono da raccordo allo svolgimento del suo discorso o che prendono via via spunto dalle reazioni o condotte degli ascoltatori e fanno fronte o bordone ad esse.

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