Fenomeno Pecci ovvero gli ammonitori
di Vincenzo Guarna
È recentemente apparso sul periodico “Ausa” (Aurora) che si pubblica a Vilnius da oltre dieci anni un saggio del semiologo lituano Jurgis Kaunas dal titolo “Fenomeno Pecci ovvero gli ammonitori” ove si tratta, in termini di linguaggio televisivo della figura degli opinionisti, uno in particolare, Adriano Pecci, che operano nelle emittenti del nostro territorio. Il suo titolo arieggia nella prima parte quello del breve saggio a carattere ironico-filosofico che negli anni ‘60 Umberto Eco ha dedicato a Mike Buongiorno; nella seconda parte è derivato da quello di un romanzo sociale italiano, “Gli ammonitori” appunto, di Giovanni Cena , pubblicato la prima volta agli inizi del secolo scorso a cura della rivista Nuova Antologia di cui, all’epoca, l’autore era redattore capo. Si tratta di un romanzo che a suo tempo riscosse in Italia e all’estero un buon successo ma che ormai è del tutto dimenticato. Riporteremo per intero il saggio in questione dopo questa nota introduttiva che ha il solo scopo di fornire qualche notizia e informativa sul suo autore e sulle teorie semiologiche applicate alla tv che egli ha elaborato. Jurgis Kaunas nasce a Klaipeda sul Baltico nel 1954, inizia gli studi nella città natale, quindi passa a Vilnius, la capitale lituana dove il padre, alto dirigente delle ferrovie nazionali si trasferisce con la famiglia nel 1968. Ivi frequenta prima il Liceo e poi l’Università dove nel 1975 consegue la laurea in Glottologia. Poco dopo si reca a Parigi e nel 1976 si iscrive, nella capitale francese, al Collège de France dove diventa allievo di R.Barthes. Rientrato in patria alla morte del Maestro (1980) si stabilisce dapprima nella città natale di Klaipeda e, quivi, per dieci anni si dedica con profitto alla pesca accumulando un ingente patrimonio. Senza però trascurare gli studi e le ricerche che indirizza prevalentemente alla comunicazione di massa nelle sue più diverse e complesse espressioni (letteratura, teatro, cinema, stampa, radio, televisione,etc.). Frutto parziale di questo impegno è un aureo volume apparso nel 1989 il cui titolo originale versato non senza azzardo nella nostra lingua potrebbe fare: “La tragedia incantata”. Ove, beninteso, si sia disposti ad accettare il termine “incantata” oltre che nella sua accezione corrente anche in quella, affatto nuova di “non-cantata” e tutto ciò attribuendo con vero sprezzo del pericolo al suo incipit “in” il valore di prefisso privativo o addirittura negativo e al termine “cantata” una funzione partecipiale che, nel caso, non le pertiene (una volta ammessa la funzione partecipiale del termine de quo, l’interpretazione che abbiamo osato prospettare può passare. Vero è infatti che nella nostra lingua il prefisso “in” è usato produttivamente con valenza privativa solo davanti ad un aggettivo, ma è pur vero che ormai capita di frequente di incontrarlo con identica funzione davanti a sostantivi e participi, esempio: inoccupazione, inoccupato etc.). “La tragedia in-cantata” di cui si occupa il K. è quella classica, ossia quella prodotta in Grecia nel V secolo avanti Cristo e negli anni che immediatamente lo precedono e lo seguono. Come è noto, essa era, all’epoca, per buona parte cantata. In ogni caso, era interamente cantata la parte interpretata dal coro (presente in scena dall’inizio al termine dello spettacolo) mentre le parti interpretate dagli attori (progressivamente aumentati questi ultimi, nel corso dell’evoluzione storica del genere, da uno a tre) erano, perlopiù recitate: a volte senza, a volte con l’accompagnamento di un flauto. Ma anche, altre volte erano cantate: sia in forma alterna con il coro, sia nei c.d. “scambi” tra attori, sia infine, nella forma della monodia (canto a solo di un attore). Nulla però sappiamo/conosciamo di quel canto. Un’esile traccia forse l’unica che esiste, è in un papiro dell’Arciduca Rainer. Si tratta di notazioni musicali che accompagnano il testo dei versi 338-344 dell’Oreste di Euripide, una tragedia del 408 a.C. . Ma è estremamente arduo interpretarli e, ancor più, tentarne la trascrizione in termini di musica moderna. Il che, del resto, è vero per tutti i trattati antichi di musica. La tesi originale del K. è che la maggiore fortuna che la tragedia greca ha incontrato nel corso dei secoli, è di avere perduto via via il suo tessuto musicale trasformandosi in quello che essa oggi veramente è e che noi conosciamo. Privata di quel tessuto, secondo il K., e ridotta a puro recitativo, essa ha sicuramente guadagnato in forza espressiva, in drammaticità, in vigore e potenza. Naturalmente si tratta di una tesi estremamente audace ma argomentata e riccamente sostenuta da un dotto e capillare esame della variegata e complessa struttura metrica dei versi che la compongono e quant’altro. Questo singolare saggio è valso al Kaunas la cattedra nell’Ateneo della capitale lituana oltre che una progressiva e sempre più diffusa fama nel mondo accademico internazionale. L’opera più significativa che il Kaunas ha pubblicato dopo di questa è dedicata alla tv e porta il titolo originale e significativo di “Le parole ghiacciate”, e il sottotitolo, “Tempo reale”. In alto a sinistra sul verso del frontespizio, si legge una frase decisamente esplicativa tratta da Cicerone: “gloria virtuti resonat tamquam imago…” Il titolo “Le parole ghiacciate” è tratto da un flash narrativo presente nell’aureo trattato cinquecentesco “Il cortegiano”2 di B. Castiglione. La novelletta che lo contiene – straordinariamente suggestiva per il suo surrealismo ante litteram – narra di un lucchese che d’inverno va in Russia a comprare zibellini per farne poi commercio in patria. Colà giunto, si reca, accompagnato da interpreti polacchi, a incontrare i suoi fornitori e li avvista sulle rive del Boristene (come all’epoca aveva nome il fiume Dnepr) che è “tutto duro di ghiaccio come marmo”. Li riconosce ancorché essi si trovino sulle rive opposte a quelle ove egli si sta muovendo e anche quelli lo riconoscono: ma, questi ultimi diffidando dei polacchi che lo accompagnano,rimangono sulla loro riva accostandosi a lui “se non quanto era largo il fiume”. E di là ad alta voce gridano il prezzo della loro merce. Ma “tanto era estremo il freddo che non erano intesi: perché le parole, prima che giungessero all’altra riva si gelavano in aria e vi restavano ghiacciate….”. Per Kaunas questa è la sorte delle comunicazioni verbali effettuate attraverso lo strumento televisivo. Il quale ha come suo linguaggio specifico ed esaustivo l’immagine ed è su di essa che deve puntare liberandosi progressivamente della sovrastruttura, ad esso aliena, del parlato. Vedremo meglio nel saggio che ci accingiamo a riportare i termini della teoria del Kaunas perché in esso l’autore felicemente li riassume con le sue stesse parole. In epilogo, tre annotazioni. La prima: alcuni rilievi contenuti nel saggio, specialmente quelli di carattere strettamente lessicale o linguistico, quando, – e accade – appaiono impropri o esagerati si spiegano e, in parte, si giustificano con la conoscenza che il K. ha della lingua italiana: buona, ma pur sempre acquisita non già, come si dice, attraverso una full-immersion, bensì attraverso grammatiche e manuali. La seconda, anche questa di carattere linguistico: quando la prosa del K. appare piuttosto enfatica ed eccessiva non bisogna ricondurre la circostanza a una naturale attitudine oratoria dell’autore, ma piuttosto al carattere paludato e solenne che è proprio della lingua lituana. La terza è che – come il lettore non mancherà di constatare – nel saggio che segue il K. non mostra alcun interesse agli argomenti che gli ammonitori sviluppano, via via, nel corso delle loro trasmissioni. Da puro semiologo qual è, ossia scienziato della comunicazione (nel caso in specie della comunicazione a mezzo tv) egli ne fa cenno – quando ne faccia cenno – del tutto per inciso e unicamente per promuovere e illustrare, all’interno della loro dinamica il frutto delle sue ricerche semantiche: non esprime giudizi di merito sul loro contenuto, non azzarda valutazioni, rimane per così dire indifferente o, meglio neutrale come sempre dovrebbe essere, – ma purtroppo non è – per la vera scienza.
A.A. cercasi … . L’incipit di questo classico annunzio pubblicitario potrebbe costituire, forse costituisce una debole traccia o un malizioso indizio per trovare o, meglio, per scoprire la vera identità della persona che si cela dietro lo pseudonimo di Adriano Pecci. Non diremo di più perché, forse, non siamo in grado di farlo o, forse non vogliamo farlo. Ma tutto questo non conta. Né, meno ancora impedisce che il soggetto Pecci opportunamente studiato nella sua epifania mediatica possa positivamente concorrere all’approfondimento delle nostre teorie in fatto di linguaggio televisivo e, forse ancora di più in fatto di progressiva e inarrestabile evoluzione di quel linguaggio verso il suo esito finale, che, a nostro giudizio, come i lettori sanno è il “tempo reale”. Ossia la rappresentazione illico et immediate sullo schermo del nostro televisore quando ci venga voglia di guardarlo, degli avvenimenti del mondo, ovunque e in qualunque momento essi si manifestino o irrompano o esplodano. In una, ovviamente con gli uomini e le donne, siano essi protagonisti o vittime o comparse che ne facciano comunque parte o ne siano elemento costitutivo. È la televisione del futuro. Quella che ancora non c’è, ma che tecnicamente è possibile prefigurarsi in virtù del c.d. digitale terrestre già parzialmente operativo nel mondo non esclusa l’Italia. Un sistema informatico e informativo insomma che, come non manca di spiegare d’ogni parte il ministro italiano della comunicazione Gasparri, consente la moltiplicazione, si direbbe all’infinito delle trasmissioni tv. Come abbiamo ampiamente dimostrato nel ns “Le parole ghiacciate”, sottotitolo, appunto, “tempo reale”, in codesta televisione del futuro sarà sempre e comunque prevalente, sino a farsi esaustiva, l’immagine, e più raro e incongruo, fino a scomparire del tutto, il parlato. Ma non anche, si badi, il rumore e il fragore. Si pensi ad esempio al boato che accompagni un terremoto di cui le telecamere rimandino, senza soluzione di continuità, l’immane fremito e i crolli e le devastazioni che ne siano effetto e, al loro interno, i gridi incrociati dei fuggitivi, l’urlo dei travolti, il gemito dei morenti etc. Questo sì che è “reality show”. Ma torniamo, se ci è concesso, al sedicente Adriano Pecci, il notista, ma meglio sarebbe dire l’opinionista ovvero l’opinion leader di Soverato 1 tv. È quella dell’opinionista televisivo una figura che la tv del “tempo reale” non contempla né potrebbe contemplare. E ciò stante la forte prevalenza in video – congenita e per così dire strutturale nelle trasmissioni che lo vedono protagonista – del parlato sul parlante: vario, mosso, articolato, incisivo, il primo; intrinsecamente statico e, – per l’assenza di interlocutori diretti e immediati – mesto e imbranato il secondo. Del resto, chiunque faccia mente locale può osservare come un siffatto personaggio e tutti quelli a lui assimilabili siano progressivamente scomparsi – se non del tutto, quantomeno in gran parte – dagli schermi delle grandi emittenti televisive. E siano finiti, come irriducibili soldati di una grande battaglia perduta, nelle estreme ridotte delle piccole televisioni, quelle dette di “quartiere” o anche “subalterne” per il loro raggio d’azione. Quelle infine che noi, come è noto, preferiamo denominare televisioni intime avuto occhio alla esiguità del loro bacino di utenza. È qui che essi, cavalieri dalla trista figura (come si autoproclamò Don Chisciotte cui li assomigliamo) ancora resistono, a loro modo si battono, malinconicamente sopravvivono. Hanno, del loro valore, spesso a ragione, una struggente consapevolezza e in essa scontano giorno dopo giorno il gusto della loro perenzione. Non che non facciano nulla per ribaltare la loro sorte dolorosa. C’è chi mirabilmente adatta i tratti del volto e la fisionomia al flusso degli stati d’animo cui gli argomenti via via trattati adducono. Sicché ora appare corrucciato e aggrondato, più avanti ilare o gioioso. A volte si mostra sconcertato. Altre, si finge corrivo, più oltre si fa insinuante. Oppure, tace assorto. Quando riprende la parola ostenta sicurezza, o simula perplessità o prefigura dubbi e incertezze. Alterna l’ironia al sarcasmo, quindi avverte, suggerisce, deplora, consiglia, sempre magistralmente assecondando con la gestualità e con le espressioni del volto il gioco dei sentimenti che lo attraversano. Naturalmente senza omettere per questo, via via, il ricorso ad accorgimenti tecnici capaci di animare e sommuovere l’esiguo e visibilmente angusto scenario in cui è costretto a muoversi. Si tratta, nel caso, di sottili artifici, di sagaci variazioni, di abili marchingegni ed espedienti ora lepidi ora cupi ma sempre caricati di forte valenza simbolica. Qualche tempo fa, l’abbiamo visto esternare da dietro una robusta grata di ferro, ironico emblema, forse, della prigione dove i destinatari di qualche suo pregresso biasimo avevano minacciato di ridurlo. In seguito l’abbiamo visto rivolgersi languidamente ad un busto femminile di gesso deposto alla sua sinistra sul piano del tavolo dietro al quale solitamente esterna. Forse per significare l’insensibilità ovvero l’indifferenza dei suoi ascoltatori agli argomenti da lui trattati. Un’altra volta ancora lo abbiamo visto trastullarsi con le mani, sul piano dello stesso tavolo, con tre piccole civette di porcellana precedentemente estratte da un cestello/soprammobile della stessa materia. Un gioco destinato a chi, forse, aveva mostrato di non prendere sul serio le sue critiche. An ghi go, tre civette sul comò… Diversamente da detto anchor man (intellettuale di rilievo che sinceramente, – come egli del resto sa – stimiamo e rispettiamo), diversamente, dicevamo, da lui che schiettamente ama la ribalta e ha tempra di star, il sedicente Adriano Pecci (del pari persona colta che stimiamo e rispettiamo) rifugge ad ogni costo dal mostrarsi, predilige camuffarsi dietro se stesso, ha il gusto di latitare nell’ombra del suo “nom de plume”. Una scelta, si direbbe, sofisticata ed elitaria non disgiunta, forse, da una sfumatura di maliziosa codardia. Ma, alla distanza, una risorsa anche questa, come vedremo. Chi mena vanto di avere piena contezza della sua identità esclude che lo faccia per dissimulare eventuali imperfezioni fisiche o d’immagine. Assicura, per contro, che ancorché alquanto maturo e avviato a divenire antico, egli conserva tuttavia una elegante statura, una linea agile e scattante, una ruvida dignità nei tratti del volto. Elementi questi, aggiunge, che pur non esulando a nessun patto dall’ordinario e, forse, proprio per questo non nuocerebbero affatto,se esibite, alle sue performances e potrebbero anzi, costituire un valore aggiunto (sia pure modesto) all’attendibilità e plausibilità dei suoi discorsi. Discorsi, mette conto rimarcarlo, mirabili ogni volta per impostazione, lucidità e costrutto. “Alto giornalismo” ha osservato qualcuno alludendo non senza malizia, come uom che sa, a lontane e non marginali esperienze del Pecci nel mondo della carta stampata di rango. A noi che nella nostra remota giovinezza abbiamo avuto indegnamente l’occasione di frequentare i grandi classici piacerebbe, – si parva licet componere magnis – fare riferimento alla prosa tacitiana degli Annales: scarna, veloce, essenziale, una sequenza continua di frasi corte, spesso una processione di enunciati autonomi, senza formale coordinazione tra di loro se non quella del rigore morale e del pathos, a monte, dello scrittore. Resta il fatto che una comunicazione come quella di Pecci andrebbe fatta esclusivamente via radio. Non avrebbe, per contro, alcuna possibilità, per quanto pregevole interessante e persuasiva di raggiungere i suoi destinatari se trasmessa attraverso l’audio e solo l’audio di un televisore. Ossia a teleschermo buio o via via baluginante o, peggio, attraversato, di quando in quando, da improvvise strisce e serpentine di luce o addirittura stabilmente pervaso tutto da globuli o corpuscoli luminosi in perpetua effervescenza (il c.d. effetto neve). Questa considerazione d’ordine tecnico ha lungamente tormentato e messo in crisi il direttore e i tecnici di Soverato 1 quando il sedicente Adriano Pecci pur determinato a esternare i suoi “pezzi” attraverso quell’emittente ha preteso di farlo solo con la voce ossia in assenza assoluta, nel video della sua immagine. Del resto obiettava, qualora avesse acconsentito di apparire sul teleschermo, come specialmente il direttore mostrava di esigere, che senso avrebbe avuto poi che egli firmasse i suoi interventi, al termine di ognuno, con un criptonimo? L’obiezione era piuttosto debole. Adduceva, infatti, a sostegno della determinazione manifestata una componente, peraltro secondaria, della determinazione stessa. Attivando in questo modo una dialettica che, per dire, il nostro dotto filosofo Giovanni Scoto Eriugena non avrebbe esitato a qualificare, per il suo carattere ascendente (opposto a quello discendente che secondo lui pertiene alla dialettica vera e propria) incongrua e fallace. Ossia una dialettica “analitica e, in questo quadro, riduttiva e ritornante (”reductiva seu reditiva”). Epperò, il sedicente Adriano Pecci, è fatto così. Il direttore più non disse e rimase turbato. Ma il regista, non facile ad arrendersi propose all’uomo di esternare apparendo in video di spalle. Pecci liquidò la proposta giudicandola del tutto irriguardosa nei confronti del pubblico al quale intendeva indirizzarsi. Allora un tecnico, persona alquanto picaresca e stravagante, gli propose di mostrarsi in video dopo essersi calato sul viso un cappuccio: un capo di abbigliamento, aggiunse, che al momento incontrava molto non solo in Iraq e nei territori del fondamentalismo islamico ma anche in Italia tra le frange più radicali della sinistra. Ancora una volta Pecci, sebbene uomo di sinistra, respinse la proposta qualificandola insolente e aggiungendo che la soluzione suggerita era da ritenersi al limite della farsa. Fu a questo punto che il regista ebbe un’idea geniale nella sua semplicità: avrebbe accompagnato l’esternazione via audio dell’opinion leader sintonizzandola in video con le immagini più belle e suggestive di Soverato. Quelle che una telecamera in movimento per le strade e nei quartieri principali della città avrebbe via via – o forse aveva già – colto e registrato. Detto fatto. L’effetto è straordinario. Ci siamo. A un certo punto dell’evoluzione del telegiornale il lettore o la lettrice del medesimo, con la marcata e, per così dire, dilatata dizione che è propria della parlata locale e calabrese in genere, annunzia: “e ora la nota di Adriano Pecci”. Partono le immagini. Per solito la telecamera prende abbrivo dall’accesso nord della via detta Panoramica e ascende lenta i suoi dolci tornanti raggiungendo ben presto, alla sua destra, il primo versante orientale del tratto di altura su cui è arrampicato il coacervo di ville più o meno eleganti e opulente, più o meno economiche e popolari, ma tutte munite di orto o di giardino che compongono il principale quartiere residenziale della città: affastellate, costipate una sull’altra o a ridosso l’una dell’altra e separate tra di loro, a stento, da torti sentieri, straducole precipiti, passaggi angusti e difficili, transiti incerti e perigliosi. Ci è avvenuto a volte, capitati da quelle parti, di ricercare d’istinto nel pozzo ormai caliginoso della nostra mente vecchi e coerenti versi di Eugenio Montale e di ripeterceli con emozione dopo avere rimesso in ordine (chissà se correttamente) i frammenti ritrovati: …. strade e scale che salgono a piramide, fitte di intagli, ragnatele di sasso dove s’aprono oscurità … archivolti tinti di verderame, si svolge a stento il canto delle ombrelle dei pini e indugia affievolito nell’indaco che stilla su anfratti, tagli, spicchi di muraglie … Siamo forse in presenza, con l’agglomerato di cui andiamo discorrendo, di una rivisitazione, in chiave moderna e nostalgica degli antichi borghi che punteggiano qua e là, non lontano dal mare e in faccia ad esso, il culmine o le pendici dell’entroterra collinare calabrese e, se vogliamo, dell’intero arco appenninico italiano. Del prodotto, dunque, d’una sofisticata urbanistica, per così dire, di riporto in cui gli spazi esterni, quelli cioè residuali e stretti tra una fabbrica e l’altra, regolarmente penduli e scoscesi per la natura del terreno, risultano, in aggiunta, coartati e ingombrati e invasi da muri, muraglie, cinte, barriere, protuberanze, aggetti, ramaglie d’ogni sorta. In un analogo agglomerato detto “Cittadella” distante non più di un Km in linea d’aria da quest’ultimo e ricadente nel territorio di Satriano, abbiamo visto una villa che merita attenzione e rilievo. Si tratta di una costruzione vasta e possente tant’è che non manca, al suo interno al piano terra, poco dopo il portone d’ingresso, dell’alloggio per il custode. Un alloggio in tutto simile per dimensione e forma (così ha ritenuto di disegnarlo e realizzarlo il progettista) alle antiche casipole e agli abituri, ormai da tempo inabitati che ancora qua e là residuano, solitamente subalterni e contigui a qualche
grosso o pretenzioso palazzo, nei borghi collinari di cui prima si è detto. E come accade per quelli, lo stesso è separato dal corpo principale e per così dire dominicale dell’edificio, – che pur, come abbiamo detto, lo ingloba – non già a mezzo di un corridoio, ma piuttosto di un angusto e contorto vicolo (”vineria”, in gergo) felicemente realizzato nella forma e nell’aspetto di quelli che a dette casipole corrispondono nel loro vetusto sito. Deve essere, questo gusto del passato, un lascito dell’infanzia che alcuni architetti calabresi si portano struggente nella loro memoria ad ogni ora e che li induce spesso a questo genere di ardue e difficili espressioni. Ma è ora di mettere da parte la lunga e forse inutile digressione che precede e tornare al seguito della telecamera. Che si limita a riprendere soltanto a margine e di sfuggita il quartiere residenziale sul quale a lungo abbiamo indugiato e, piuttosto, spostandosi a sinistra, getta uno sguardo, dall’alto, sul nucleo abitativo men recente, il c.d. centro storico della città: ne segue lentamente il suo breve degradare verso il mare, si sofferma un attimo sull’azzurra distesa di quest’ultimo sulla quale, solitario, un piccolo peschereccio all’ancora beccheggia dolcemente. Raggiunta intanto l’uscita in alto della via Panoramica, si immette, piegando a sinistra, sulla via Verdi e scende lunghessa piuttosto velocemente a valle, sino al passaggio a livello. Non lo attraversa ma tenendosi sulla destra imbocca la via Trento e Trieste e la percorre sino in fondo indugiando appena un attimo a riprendere il complesso edilizio e territoriale della ex stazione delle ferrovie CC.LL. . Raggiunta finalmente la nazionale 106 piega a sinistra e da qui fatto un breve tratto di strada periferica, imbocca il lungo Corso Umberto, lo percorre sino in fondo, quindi piegando a destra prosegue per la via S. Giovanni Bosco, in direzione sud. Subito dopo, in senso contrario risale la parallela via Cristoforo Colombo avendo a manca una fitta sequenza di ristoranti e pizzerie e a dritta un oblungo boschetto di pini e abeti e altra similare vegetazione. Travede la telecamera al di là di quest’ultimo, oltre un varco di tronchi e di labili ramure quel che, ormai da oltre sette anni è diventato l’ex lungomare: una straordinaria isola pedonale adiacente alla spiaggia e contermine al mare, tutta pavimentata a mattoni per effetto dell’intervenuta congiunzione fra di loro dei due preesistenti marciapiedi laterali mediante la collocazione di detto laterizio sull’asfalto dell’antica carreggiata con il conseguente innalzamento della stessa. Si tratta di un sito di singolare specie e bellezza: affatto simile per struttura, forma,
profilo e parabole a un largo viale, e divenuto, invece, d’un tratto, un enorme belvedere, un elegante e interminabile roof-garden. Queste sono le immagini che solitamente scorrono sul teleschermo di Soverato 1 quando la nota emittente fa spazio, all’interno del suo tg, una volta ogni settimana alla performance del sedicente Adriano Pecci. Sono immagini che abbiamo voluto descrivere nella loro sequenza con pedissequa fedeltà. Per farlo abbiamo impiegato uno sforzo supremo. Ma ci rendiamo conto che i risultati raggiunti sono a dir poco incongrui e, in ogni caso, inadeguati allo splendore, all’evidenza, alla forza e, oseremmo dire all’eloquenza che esse contengono in sé e che possono comunicare al pubblico solo raggiungendolo direttamente dal video e non certo de relato ossia attraverso la mediazione delle parole. Ulteriore dimostrazione, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che lo specifico del linguaggio televisivo è costituito solo ed esaustivamente dalle immagini quanto più possibile dirette, quanto più possibile immediate, quanto più possibile infine, liberate d’ogni sovrapposizione o giustapposizione o incrostazione di parole, siano queste ultime descrittive o pedagogiche o esplicative o illustrative o decodificative o d’ogni altro genere e specie. Questo Adriano Pecci evidentemente lo sa, o quantomeno lo percepisce. E il regista della sua trasmissione si è adeguato. Partono dunque, le immagini in video (quelle che abbiamo descritto) e Adriano Pecci non compare, non si sovrappone ad esse, è pura inapparenza. Lo scenario intanto evolve a poco a poco, pur restando uguale a se stesso per forma e stile così come variano di profilo o di contorno le figure d’un grande affresco – che intanto non muta – se volgendosi in giro, uno sguardo assorto ne esplori e percorra l’intera superficie ed estensione. È a questo punto che si insinua nel paesaggio, fatta fantasma di se stessa, ectoplasma vocale, la voce di Adriano Pecci. Vagamente suadente e per così dire condiscendente come è sempre quella di chi muove da convinzioni profonde e non già per ferire, ma piuttosto per persuadere e convincere, la voce, (gli americani direbbero “the voice”) enuclea rapidamente, innanzitutto, il tema del suo materializzarsi. Ed è sempre un tema che pertiene alla fervida e incondita immaginativa con la quale, a suo giudizio, gli uomini pro-tempore delle locali istituzioni governano la città di Soverato e ne pregiudicano lo status e il divenire. Quindi, come ogni fantasma che si rispetti, essa si muove, trascorre, pencola, plana, sempre più fusa e filtrata nel paesaggio che la contiene. Lemure, o ultracorpo, o verbo, o epifonema, Adriano Pecci ormai domina la scena e ne è dominato. E qui fluttua, lì ondeggia, più avanti si inarca, poi si piega su un fianco, indi sull’altro, ma tosto si restituisce alla sua fluida posizione eretta. E, intanto, con consapevole e volontaria scelta stilistica – che, mirata alla perspicuità e alla concisione, ancora una volta richiama la prosa di Tacito – d’un tratto si protende in un’ellisse, poco oltre si avvita in un asindeto, quindi, conosciuto un fragile indugio, riparte deciso allargandosi in un’ipallage o ondulando in uno zeugma. Spiega, illustra, osserva, commenta. A volte in rapida sintesi irride, sorride, sfiora il sarcasmo. Ma subito ha uno scarto e rifatto indulgente e pacato torna a suggerire, a riprendere, ad ammonire. Può accadere anche che si soffermi un attimo su un ricordo dei suoi lontani anni di goliardia all’Università o su quello della Soverato d’altri tempi. Oppure che evochi un episodio della Bibbia o, magari, un’arrogante abitudine del fazioso costume politico dell’antica Roma. Ma non lo fa mai per sfoggio di humanitas o di cultura, bensì per fornire, via via, un realistico o dialettico esempio di misura e di prudenza ai vivaci destinatari della sua accorata epifania. Quindi, il commiato: rivolto all’emittente e siglato Adriano Pecci. L’ultima volta che l’abbiamo ascoltato, il fantasma fonico di Adriano Pecci, fatto subacqueo, si muoveva ironico in un basso fondale marino animato, sopra e intorno ad un’esile flora litorale, da pochi e piccoli pesci non d’altura tra i quali nuotava nella sua “infanzia di mostro” (come direbbe Salvatore Quasimodo avuto occhio al suo aspetto e alla sua piccolezza) un ippocampo, in arte “cavalluccio marino”: il signatide – presente nei mari di tutte le latitudini tropicali e temperate del pianeta – che la indomita immaginazione delle istituzioni locali ha recentemente adottato, ad uso turistico, per emblema della città di Soverato.
Vincenzo Guarna, “News dall’Osservatorio” – anno 2004
NOTE
1. Nel saggio di K. “gli ammonitori” sono gli opinionisti televisivi, mentre nel romanzo sociale di Cena, sono i paria, i relitti della vita che “ammoniscono” con la loro sorte disgraziata i dominatori della vita stessa .
2. Il trattato delinea, in tre libri, la figura del Cortegiano, ossia del perfetto uomo di corte, un personaggio centrale della cultura e dello spirito del Rinascimento. – Ha forma di dialogo ed è ambientato nel 1504 nel Palazzo Ducale di Urbino e, precisamente, nel salotto della Duchessa Elisabetta Gonzaga, dove dopo cena (mentre il Duca Guidubaldo di Montefeltro che è malfermo di salute si ritira a dormire nelle sue stanze) la corte si trasferisce per trascorrere il resto della serata. E qui, sotto l’esperta regia della Duchessa e della sua assistente Signora Emilia Pia, si dà corso, di volta in volta, a simpatiche festicciole, a piccoli concerti, a danze, a dibattiti, a giochi vari. Una volta sorge una disputa sull’ideale del perfetto cortegiano e ad essa, che si sviluppa per tre sere consecutive, partecipano alcuni tra i maggiori intellettuali e vip dell’epoca: Ludovico da Canosa, Federico Fregoso, Bernardo Dovizi, Giuliano DeMedici , Ottaviano Fregoso, Pietro Bembo, Cesare Gonzaga, Gaspare Pallavicino, Bernardo Accolti detto l’Unico, Vincenzo Colli detto il Calmeta e altri.
3. In un dotto e poco persuasivo libretto giovanile il K. sostiene, sulla base di una ricca ma, in molti casi, precaria e approssimativa documentazione che il filosofo Giovanni Scoto Eriugena sia nato (agli inizi del IX secolo dopo Cristo) non già in Irlanda, come comunemente si crede (e come il toponimico Eriugene testimonierebbe: Irlanda, infatti, in Irlandese fa Eire) sibbene a Erius uno sperduto villaggio della regione del Niemen dove, appunto, intorno al secolo IX si andò formando e costituendo il nucleo più antico della nazione Lituana. Verso il diciottesimo anno il filosofo si sarebbe trasferito in Francia dove, sposata una donna irlandese, (da qui, forse, l’equivoco sulle sue origini) sarebbe vissuto sino alla morte (avvenuta intorno all’876 d.C.).
Vincenzo Guarna