Titolo originale: Route Irish
Genere: Drammatico
Origine/Anno: Gran Bretagna, Francia – 2010
Regia: Ken Loach
Sceneggiatura: Paul Laverty
Interpreti: Mark Womack, Andrea Lowe, Geoff Bell, Jack Fortune, Talib Rasool, Craig Lundberg, Trevor Williams, Russel Anderson, Jamie Michie, Stephen Lord
Montaggio: Jonathan Morris
Fotografia: Chris Menges
Scenografia: Fergus Clegg
Musiche: George Fenton
Giudizio: 6
Trama: Fergus, ex soldato ed ex contractor in Iraq, indaga sulla morte di Frankie, suo amico per la pelle e contractor a sua volta, e scopre che quest’ultimo, prima di morire in un attentato terroristico sulla Route Irish, ha assistito all’eccidio di una famiglia irachena da parte dello stesso commando di cui faceva parte. Sospetta allora che la sua morte non sia stata accidentale e che l’amico sia stato ucciso perché voleva denunciare l’accaduto.
Recensione: Ancora un film di denuncia per Ken Loach. Ancora un’inchiesta sul potere e la prevaricazione che questo esercita nei confronti dei più deboli (stavolta civili inermi trucidati dai contractors iracheni). Con una storia che rievoca fatti in parte trapelati, negli anni scorsi, sulle agenzie di sicurezza in Iraq (in particolare la famigerata Blackwater), Ken Loach racconta del massacro di una famiglia irachena da parte di uno dei tanti gruppi di mercenari dal grilletto facile che scorrazzano armati fino ai denti e con “licenza di uccidere” nella martoriata Baghdad del dopo Saddam. La strage di civili viene però filmata con un telefonino che finisce in mani sbagliate. E gli autori della strage faranno di tutto per ritrovarlo ed eliminare ogni prova. La storia si intreccia allora con le vicende personali di Fergus, del suo amico Frankie e di Rachel, moglie di quest’ultimo.
La condanna contro il potere è netta! Ma questa volta si va oltre. Ad esser messa all’indice non è soltanto la guerra con le sue atrocità, né soltanto gli appetiti di chi vi lucra (dalle agenzie di sicurezza, all’amministrazione americana). Ad esser stigmatizzati, infatti, sono ora anche tutti quelli che vi prendono parte, brutalizzati dalla ferocia e dalla barbarie dell’esperienza irachena (Fergus rievoca continuamente il periodo trascorso come contractor in Iraq e parlando con Rachel dice di essere “un altro” tutte le volte in cui si allontana da lei). Così, nelle sequenze della immancabile vendetta finale, in altri film benedetta dal regista (si pensi a Piovono Pietre o Riff Raff), Ken Loach, invece di sostenere senza riserve i suoi eroi schiacciati dal potere, punta il dito anche contro di loro, mostrando come questa, la vendetta, porti allo spargimento di altro sangue innocente: ingiustizia che si somma ad ingiustizia, in una spirale che si avvita su se stessa e dove anche le vittime sono carnefici.
Ma i tempi di Riff Raff e Piovono pietre sono lontani, ed il film, come spesso accade sostenuto da una forte tensione ideologica, perde quel tocco che in altre circostanze aveva fatto dimenticare qualche eccesso retorico o celebrativo. Route Irish fa leva su immagini molto crude, direttamente evocatrici del dramma iracheno, usa corpi martoriati e vite spezzate quasi esibite nel loro orrore di fronte all’obiettivo. Tutto questo, però, non viene filtrato dalla presenza di un contesto sufficientemente rigoroso. I flashback di Fergus sembrano inseriti “a comando” ed appaiono un espediente più sensazionalistico che narrativo. Il montaggio parallelo del musicista iracheno che intona un canto tratto dalla tradizione mesopotamica con scene di guerra e massacri risulta meccanico ed artificioso. I personaggi sono spesso sopra le righe, a cominciare dallo stesso Fergus con la sua caratterizzazione forzatamente muscolare.
Ken Loach, insomma, appare lucido nelle intenzioni, ma decisamente meno nella fase di realizzazione del film.
Gianfranco Raffaeli