
Titolo originale: Corpo celeste
Genere: Drammatico
Origine/Anno: Italia – 2011
Regia: Alice Rohrwacher
Sceneggiatura: Alice Rohrwacher
Interpreti: Anita Caprioli, Renato Carpentieri,
Yle Vianello, Salvatore Cantalupo,
Pasqualina Scuncia
Montaggio: Marco Spoletini
Fotografia: Hélène Louvart
Scenografia: Luca Servino
Costumi: Loredana Buscemi
Giudizio: 7
Trama: Marta è una bambina di tredici anni che, dopo aver passato alcuni anni in Svizzera con la famiglia, torna a Reggio Calabria, sua città natale, ove però fatica ad inserirsi.
Recensione: Presentato alla Quinzaine des Réalisateurs dell’ultimo festival di Cannes, Corpo Celeste, ispirato da un omonimo scritto di Anna Maria Ortese, è un’opera prima che stupisce per la maturità dello sguardo e la straordinaria capacità di ricostruire con puntualità e rigore le dinamiche sociali e famigliari della comunità di un quartiere periferico di una Reggio Calabria dura ed inospitale. Alice Rohrwacher, con la mano attenta e meticolosa del documentarista, scruta, carpisce e mette in scena le aspirazioni e le frustrazioni dei suoi personaggi, prendendo le mosse dalla festa religiosa del paese, luogo d’incontro per gli abitanti del quartiere e d’esordio sociale per i nuovi arrivati. E proprio in ambiente religioso è calato il film, che si muove tra le pareti domestiche della famiglia emigrata in Svizzera e poi rientrata in Calabria, attraverso gli aridi paesaggi della periferia reggina, ma soprattutto all’interno dei locali della parrocchia di Don Mario.
La piccola parrocchia di quartiere viene presentata con stupefacente realismo, una sorta di microcosmo che riproduce fedelmente le piccolezze e le miserie delle umane vicende. Un parroco in carriera che fa campagna elettorale al candidato sostenuto dal vescovo per ottenere un trasferimento in una parrocchia più importante. Un’educatrice mediocre che prepara un gruppo di adolescenti per la cresima, insegnando loro il catechismo come fosse un gioco a quiz e facendo eseguire penosamente ai ragazzi canti liturgici che persino il parroco si rifiuta di ascoltare. Meschinità e prevaricazione che si riversano a catena sul più debole di turno: l’assistente del vescovo prende le distanze, umiliandola, dall’insegnante di catechismo, preoccupata per un imminente trasferimento del parroco nei cui confronti nutre un amore non ricambiato (“Chi è lei per santa madre chiesa?!”); l’insegnante di catechismo, che mal sopporta la piccola Marta, la protagonista del film, durante le prove per la cresima, prima si rifiuta di rispondere ad sua domanda sul significato della formula di rito pronunciata al momento dell’imposizione del sacramento, rimproverandola, poi le dà uno schiaffo quando, come tutti, Marta si mette a ridere per una rocambolesca caduta dell’insegnante.
Il quadro che ne viene fuori è desolante. Ed aggravato, visivamente parlando, da una natura ostile enfatizzata dai luoghi di ambientazione del film (cemento armato ed edifici con facciate grezze, cavalcavia e strade a scorrimento veloce, un paesaggio aspro, brullo, inospitale). E proprio immersa in questa brutalità (icasticamente rappresentata nella scena della cruda uccisione dei cuccioli trovati in un ripostiglio della parrocchia) si svolge la vicenda, questa invece delicata, della problematica pubertà della piccola Marta, che fatica più di tutti a trovare una sua strada, combattuta tra i dubbi e le insicurezze di un corpo che cambia, di un rapporto conflittuale con la sorella maggiore, di un’ansia di certezze sempre frustrata dai grandi che le stanno attorno senza darle retta (così Santa, l’insegnante di catechismo; don Mario, il parroco; la sorella maggiore).
Da segnalare il piccolo ruolo affidato a Renato Carpentieri/don Lorenzo, parroco del paesino in cui è nato don Mario (a proposito, Salvatore Cantalupo, che interpreta don Mario, è napoletano e si sente dal suo accento; ma il parroco del film è nato in un paese del reggino). Don Lorenzo rappresenta un’altra Chiesa, una Chiesa di periferia, più autentica, più vicina al messaggio evangelico. E’ l’unico che ha un contatto con Marta, l’unico in grado di darle delle risposte, l’unico che riesce ad instaurare un rapporto con lei (a parte la madre della bambina). Il crocifisso ligneo che don Mario, dal proprio paesino d’origine, vuole portare nella sua parrocchia di Reggio Calabria, finirà in mare lungo la strada: quasi come se il Cristo si rifiutasse di andare ad abitare una chiesa così distante dalle persone, ridotta ad uno specchio deformante della realtà in cui è calata.
Nel finale, un emblematico attraversamento di Marta di un cavalcavia allagato – unico mezzo per raggiungere la spiaggia ed il mare, più volte da questa agognato nel corso del film – segnerà il suo ritrovato senso delle cose, ed un nuovo equilibrio.
Gianfranco Raffaeli