
Titolo originale: This must be the place
Genere: Drammatico
Origine/Anno: Italia, Francia, Irlanda – 2011
Regia: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto
Contarello
Interpreti: Sean Penn, Frances McDormand,
Judd Hirsch, Eve Hewson, Kerry Condon, Harry
Dean Stanton, Joyce Van Patten, David Byrne,
Olwen Fouere, Shea Whigham
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Fotografia: Luca Bigazzi
Scenografia: Stefania Cella
Musica: David Byrne, Will Oldham
Costumi: Karen Patch
Giudizio: 8
Trama: Una rock-star in crisi d’identità, che ha smesso ormai da tempo di fare musica, alla morte del padre, con cui non parlava da trent’anni, decide di andare a caccia del criminale nazista che aveva umiliato quest’ultimo nel campo di Auschwitz.
Recensione: Cheyenne è una rock-star che si è ritirata dalle scene da vent’anni. Vive il proprio isolamento in una villa sfarzosa di Dublino che abita con la moglie, con la quale gioca a pelota in una piscina simbolicamente vuota, un po’ come il protagonista del film che, fin dalle prime inquadrature, appare svuotato, snaturato da qualcosa che rimane sullo sfondo e che ne fa una specie di bambino cinquantenne (solo i bambini non fumano, gli verrà detto a proposito del suo rifiuto del fumo). Le lancette dell’orologio paiono essersi bloccate al momento del suo ritiro dalle scene, quando il suicidio di due suoi fan lo segna a tal punto da indurlo ad abbandonare per sempre la musica. Ma, in realtà, già qualcosa di più profondo lo aveva segnato da ragazzo. E proprio alla ricerca di questo qualcosa, Cheyenne partirà una volta abbandonata Dublino per accorrere al capezzale del padre morente.
La maschera di cerone e rossetto che rende impenetrabile ed immutabile al tempo stesso la sua espressione (gli verrà chiesto, in un ristorante cinese, quanti anni abbia perché a guardarlo non si capisce) nasconde agli altri la sua condizione interiore e rappresenta icasticamente la sua ambivalente situazione di immobilismo/imprigionamento. Imprigionamento che, a sua volta, pare essere evocato dai continui, quasi irrequieti (ma elegantissimi), movimenti di macchina che si susseguono lungo l’intero corso del film, disegnando una trama quasi labirintica. Ma se le carrellate e le panoramiche, che fanno sempre leva su punti di fuga e linee prospettiche, sembrano richiamare, nell’ossessiva simmetria che le caratterizza, un’idea di gabbia interiore; le dolly, dotate di straordinaria fluidità e fantasia (bellissima quella in cui la macchina da presa fa un movimento circolare per andare a ripescare il pick-up di Cheyenne mentre riparte dopo aver fatto scendere l’indiano cui aveva dato un passaggio), paiono invece esprimere l’esigenza di liberarsi dalla medesima.
E questa liberazione si realizzerà poco alla volta, passo dopo passo, nell’incontro con una serie di personaggi che lo faranno avvicinare via via sempre più al nodo centrale delle proprie ossessioni. Bellissima (e forte) la sequenza dell’incontro col criminale nazista cui Cheyenne dà la caccia nella seconda parte del film.
Gianfranco Raffaeli