
Titolo originale: Hunger
Genere: Drammatico
Origine/Anno: GB – 2008
Regia: Steve McQueen
Sceneggiatura: Enda Walsh, Steve McQueen
Interpreti: Stuart Graham, Laine Megaw, Brian
Milligan, Liam McMahon, Karen Hassan,
Michael Fassbender, Frank McCusker, Lalor
Roddy, Helen Madden, Des McAleer
Montaggio: Joe Walker
Fotografia: Sean Bobbitt
Scenografia: Tom McCullagh
Costumi: Anushia Nieradzik
Musiche: Leo Abrahams, David Holmes
Giudizio: 8
Trama: La rivolta delle coperte e dello sporco dei detenuti politici irlandesi nell’era Thatcher, perché venga loro riconosciuto lo status di detenuto politico, sfocia in uno sciopero della fame a oltranza di alcuni di essi che porterà a conseguenze estreme.
Recensione: Arriva (finalmente!) nelle sale italiane – dopo il successo e le polemiche suscitate da Shame – il primo intenso lungometraggio di Steve McQueen, l’ormai noto video artista londinese, realizzato qualche anno fa (nel 2008) ed ambientato nel carcere di Long Kesh (Maze per gli inglesi) al tempo dello sciopero della fame di Bobby Sands (che ebbe inizio il 1° marzo 1981). Il film, con la crudezza e l’efficacia di un pugno nello stomaco, mette in scena la condizione dei detenuti politici irlandesi che, per vedersi riconosciuto lo status – appunto – di detenuto politico, quando questo venne abolito nel ’76, dapprima diedero inizio alla cosiddetta protesta delle coperte (si rifiutarono cioè di indossare le uniformi da detenuto coprendosi soltanto con una coperta); poi, due anni dopo, a quella dello sporco (si rifiutarono di uscire dalla cella per andare alle latrine, spalmando sulle pareti delle prigioni i loro escrementi e vuotando i secchi con le loro urine, da sotto la porta delle celle, nei corridoi del carcere).
Hunger, dal punto di vista cronologico, si inserisce in una fase già avanzata della protesta. Quella in cui Bobby Sands, divenuto frattanto Officer Commanding dei detenuti, decide di dare avvio ad uno sciopero della fame ad oltranza (quello precedente, guidato da Brendan Hughes, si era concluso quando uno dei detenuti stava per morire ed i compagni, per evitare che ciò accadesse, decisero di interrompere lo sciopero dando credito a fumose promesse degli inglesi).
Ma veniamo più da vicino al film. Hunger, si è detto, è molto crudo. La macchina da presa di McQueen non lesina dettagli nell’inquadrare i mucchi di escrementi all’interno di celle claustrofobiche ed i vermi che vi si agitano, nel trasportarci nel vivo del dramma dei detenuti e nel farci così rivivere le condizioni disumane dei prigionieri in rivolta, gli abusi, i soprusi, i pestaggi cui sono sottoposti (mentre fanno da contraltare alle immagini registrazioni originali delle parole di Margaret Thatcher che, con disdegno e sarcasmo, fa professione di inflessibilità e mostra il più assoluto disinteresse per le ragioni dei rivoltosi).
Il racconto filmico, si può dire, si svolge su due piani paralleli: da un lato l’inferno della vita all’interno del carcere, dall’altro l’apparente serenità della vita famigliare di un funzionario del carcere (il dentro ed il fuori dal dramma). Serenità solo apparente, però. Il secondo piano, infatti, non può non condizionare il primo. Così, il funzionario del carcere si ritrova, nella sequenza iniziale, ad immergere le mani in un lavandino colmo d’acqua per dare sollievo ai segni sulle nocche lasciati dai colpi sferrati ai detenuti il giorno prima e si china per verificare che non ci sia dell’esplosivo sotto la sua auto, prima di avviare il motore.
Spartiacque all’interno della narrazione è poi un lungo dialogo tra Sands ed un prete cattolico (Padre Dominic Moran), che assume un po’ le vesti di coscienza critica dello stesso Sands. Qui vengono esposte le ragioni politiche del gesto estremo cui Bobby Sands si prepara, le motivazioni dell’ineluttabilità dello sciopero della fame ad oltranza; ragioni che si mescolano ad esperienze e suggestioni personali, a sensazioni e stratificazioni culturali, a due differenti modi di essere che rappresentano anche le due diverse anime del movimento che da sempre si contrappongono tra loro: la prima interventista e radicale, l’altra più propensa al dialogo ed a lasciar spazio alla politica.
Nella seconda parte del film, la macchina da presa documenta il lento ed inesorabile disfacimento del corpo di Sands, interpretato da un bravissimo e (per l’occasione) magrissimo Fassbender. Le piaghe da decubito, gli aghi inseriti nelle vene oramai scoperte per prelevare il poco sangue rimasto necessario ai dovuti accertamenti clinici, i pasti lasciati inutilmente sul comodino di fianco al letto e le precauzioni (sempre crescenti) per proteggere un corpo sempre più debole, sempre più incapace di reagire. Un lento, ostinato addio alla vita, un consapevole, estremo gesto di dignità.