
Il tempo di oggi è caratterizzato dal tutto e subito, dal gratificarsi continuo e senza sosta, per sentirsi al top: dall’avere immediato, piuttosto che dall’essere. E ancora, dal sentirsi pieni di qualcosa, solo se la consumiamo, se la fagocitiamo, se la viviamo famelicamente e voracemente… Non parlo di merci, di beni materiali, di centri commerciali… Parlo di sentimenti, di rispetto umano, di confronto fra le persone, di amore, di vita quotidiana…
Ed è questo, a parer mio, che ha fatto perdere di vista la responsabilità che ognuno di noi ha verso noi stessi e verso l’altro. Troppo facile parlare di egoismo o egocentrismo, ma sono anni di centralità esagerata dell’ego… Sempre quell’insistere sull’io al centro del mondo, senza mai contemplare un noi, quel concedersi sempre tutto e senza sosta, divorando ogni cosa. Il senso di onnipotenza, senza curarsi mai del noi con l’altro, della diversità fra individui, tanto meno della condivisione.
Guardando le cose da lontano, molti, ultimamente, gli avvertimenti: il clima velocemente stravolto, l’incuria che fa cadere i ponti fra rimpalli burocratici, incidenti di massa, il terrorismo, con i suoi colpi di mano… Ma noi, imperterriti, abbiamo continuato la nostra corsa…
Abbiamo lasciato che tutto continuasse a bruciare, nei nostri animi, in immensi fuochi di paglia, tanto belli da vedere ed alti verso il cielo, quanto relativamente effimeri.
In gennaio, in Cina, è esplosa l’epidemia da COVID-19, ma noi, si è pensato fosse troppo remoto il pericolo, troppo lontana la Cina, dimenticando che, da oltre due decenni, ne siamo quasi dipendenti, commercialmente parlando…
Poi il virus è esploso in Italia, con una virulenza che non ci aspettavamo e con quella stessa egoistica presenza imperante, pari soltanto alla nostra cosiddetta ansia di vivere, bruciando tutto…
Il buon senso di proteggerci azzerato, la spavalderia al sommo grado, la volontà di vincerlo, solo ignorandolo…
Abbiamo continuato a vivere cambiando alla parola il suo vero significato semantico, che attiene alla vita stessa, cioè all’esserci, appunto: vivi, ovvero, in vita, anagraficamente presenti e non in un loculo, morti. Abbiamo fatto subire al verbo vivere quel metaplasmo semantico, ovvero quel cambiamento di significato totale, che ci induce a pensare che si viva solamente quando si mastica l’esistenza, come se dovessimo mangiare in fretta un cibo con bassa scadenza.
Così abbiamo visto gli studi impoverirsi dietro a titoli anonimi, amori che sembravano luminosi, spegnersi nel giro di poco tempo, personalità buttarsi via, in un bicchiere.
Spesso, in classe, gli alunni mi chiedono come io la pensi, su molte cose.
Il mio motto è la lentezza. Nella lentezza si assapora tutto, si gioisce delle piccole cose, si gusta un momento, uno sguardo, un sorriso, una parola, un ricordo… tutto.
Invece, non facciamo che correre…
Moltissime volte, quando parlo, mi accorgo di non essere ascoltata, di essere considerata pesante, perché mi soffermo, lenta; perché, mentre parlo, guardo il mio interlocutore… Mi accorgo che chi mi sta di fronte, al contrario, mentre parla con me, sta pensando a cosa deve fare dopo: la conversazione si perde nel nulla, tutti corrono, ma dove vanno? Vedo, spesso, l’altro proiettato già nell’istante successivo e, la volta successiva faccio io, la stessa cosa, per sentirmi al passo, per non sentirmi vessata da quell’indifferenza…
Eppure, ogni tanto, capita di incontrare quella persona come me, che ascolta, che si sofferma, anche per un istante; che mi guarda negli occhi: quella persona che mi parla davvero, non col semplice pour parler, ma con la consapevolezza che siamo uno di fronte all’altro… e quella è l’estasi. È lì, che ti senti al centro del mondo, anche per un attimo, e ti rimbomba il ritornello della evergreen dei grandi Pooh: “Dammi solo un minuto, un soffio di fiato, un attimo ancora…”, consapevole che quel minuto è stato nostro, non solo mio…
Quella gente che corre perennemente… ma verso cosa? Verso il sugo che si brucia (ma, poi, con chi sta a tavola non dialoga), verso il figlio a cui deve fare la valigia (ma, poi, non sa che il figlio è alcoolista), verso il compagno che non può stare senza noi (e poi quel compagno ha perso la macchina al gioco), verso la torta lasciata nel forno, verso l’aperitivo con gli amici (e, poi, quegli stessi amici li pugnala, perché non li sopporta) o verso la collezione di cene, pranzi, convivi, per farsi considerare di mondo?
Mi piace tutto, della vita, ma tutto ciò che posso gustare, non inglobare ingordamente. Quando vado al cinema, mi piace tornare a casa a piedi e meditare; quando vado a teatro, mi piace ringraziare e fare le foto con gli attori; quando vado a passeggio, non mi piace parlare di questa o quella persona, ma del libro che ho letto; quando viaggio, mi piace rivivere i posti, non sciorinando il mio spirito di osservazione, ma parlando delle sensazioni che un luogo mi trasmette; quando leggo, mi piace sottolineare e appuntarmi alcune frasi, per questo , non sempre sono veloce, nella lettura e, quando scrivo, mi piace avere tempo, per raccogliere i pensieri e formulare le frasi giuste. Tutto ciò che corre senza una vera meta, mi deprime, mi sconforta. Tutto ciò che è sciocco e superficiale, mi fa sentire defraudata di qualcosa! Mi piace poter riflettere sulle cose. Mi piace scegliere, non prendere di tutto. Mi piace essere, almeno nelle grandi cose che lambiscono la mia vita, essere consapevole di quel che vivo. Per questo, mi accorgo di non avere rimpianti, di non avere ambizioni esagerate. Adoro avere dei traguardi, ma non mi sono mai imposta scalate. Mi piace fermarmi, ad ogni traguardo scelto, per un bel po’, godermi il luogo o il panorama. Poi restare lì, se mi piace, appagata, o proseguire, non per conquistare e per crescere, non per piantare bandiere…
Con amarezza, spesso, vivo questo in solitaria. Ho imparato, non a discostarmi, ma a dovermi discostare da gente che corre verso il nulla, che in una cena conviviale si alza, perché, improvvisamente, come il gong di Cenerentola, è giunta l’ora di chiudere, perché big ben ha detto STOP! Con amarezza, mi sono allontanata da persone che ho frequentato per anni, perché le ho visti correre verso il niente, dando la colpa all’età che avanza, mentre, invece, è solo una sterzata verso una leggerezza apparente che li attira… La leggerezza ha due facce: quella del non dare un peso eccessivo alle cose e quella di rendere tutto inutile: sinceramente non mi voterei mai alla seconda!
Tutta questa inconsapevolezza, in tempi duri e bui, come quelli che stiamo vivendo, fa sì che molta gente pretenda i soldati alle porte di casa, piuttosto che autoregolarsi nei confronti di una pericolosa epidemia in corso; che molti prendano le precauzioni come una vacanza; che tanta gente, a scuole chiuse, si riversi nei centri commercali, sugli impianti e le stazioni sciistiche, quando sono vietati gli assembramenti; che in tanti affollino i ristoranti, invece di passeggiare all’aperto!
La pazza gioia del correre, del non percepire il pericolo, dell’ignorare i consigli, perché, tanto, mors tua, vita mea!
E ci siamo passati tutti, da questo sentiero, per esorcizzare la paura, per fare finta di nulla sperando che passasse, ma ora, ora che è giunto il momento di affrontare a viso aperto il rischio vero, lasciamo da parte ogni convinzione personale, ogni pensiero proprio e agiamo concretamente contro ciò che possa danneggiarci. Ascoltiamo le indicazioni, seguiamo le prescrizioni, mettiamo in pratica ciò che ci protegge e che, persino, ci salva. Non sarà per sempre, ma dobbiamo essere cauti. Ognuno nel suo, per sé e per tutti.
Guardiamo verso il sole, per una volta: soffermiamoci.
Rallentiamo, riflettiamo.
Non partiamo.
Meditiamo.
Scopriremo mille cose belle, anche nell’altro, contemplandolo, non dandolo per scontato, appioppandogli le etichette di sempre.
Non sarà per sempre, ma, dato che è necessario e imprescindibile, ormai, facciamolo con l’idea che non torneremo più come prima e che ciò non sarà negativo come pensiamo, ma che ci renderà migliori, perché ognuno avrà recuperato se stesso e, recuperando se stesso, avrà recuperato gli altri e tutto ciò che ci circonda, pensando di più all’esistere e non al vivere tout court o al lasciarsi vivere.
Perché il prima, ora, sa di burattino, ma, forse, superando, uniti, tutto questo, il dopo avrà, finalmente e realmente, sentore di umano…
Maria Palazzo