Sono passati molti anni, Monica cara, da quella sera in cui ti abbracciai al Teatro della Pergola, di Firenze.
Entrambe amiamo il colore rosso.
Entrambe siamo dello Scorpione.
È quello che ti dico, a fine spettacolo e poi ti dico, incantata: “Ma lei è BELLISSIMA! Il cinema e la TV non le rendono merito!” …
Me lo ricordo come fosse ora.
Come mi ricordo la tua spontanea, stupita, ma gioiosa risposta, in romanesco: “Ma ddavero?”…
All’epoca ero col ragazzo che frequentavo in quel periodo della mia vita: amavamo molto il cinema e il teatro e, quello stesso anno, avevamo conosciuto il grande regista Jean Jacques Annaud, presso l’Institut Français… Eravamo due matti, in cerca di emozioni: un bel periodo, quello, ricco di grandi eventi.
Ci dicesti: “Siete voi, i veri belli, che siete giovani!” e io mi pentii di non averti portato fiori a centinaia: ero così emozionata di avere un mito davanti a me, che non capivo più nulla…
Si affacciò al tuo camerino, il grande Orazio Orlando, comico nato: una montagna di uomo, bellissimo, con un sorriso da svenimento e fu un’apoteosi di risate… E si aggiunse a noi anche la bellissima e misteriosa Rossella Falk, i cui occhi profondi mi sono rimasti nell’anima.
Sia io che tu, cara Monica, indossavamo, come si confà alla nostra natura, qualcosa di rosso. Quel colore vivo dava, alla tua carnagione eterea, un riflesso di fiamma, un risalto luminoso, che riverbera, in me, ancora oggi. Su di me il rosso incupisce un po’, per il mio incarnato olivastro, ma ricordo, in entrambe, l’infinita gioia di vivere e di esternare le emozioni.
Un mito, Monica Vitti, eppure una donna semplice.
Questo mi è rimasto di te.
La donna più bella che io abbia mai visto e io, le donne, non so guardarle bene: sono sempre gli uomini, quelli che m’incuriosiscono e mi attraggono: l’altra metà del cielo, come dico spesso…
Mi ricordo quel tuo sorriso, intenerito dalla nostra stima, dal nostro interesse. E quella voce, indimenticabile. Alta e fragorosa, risuonante negli antichi camerini della Pergola, quello che io ritengo ancora il Sancta Sanctorum della prosa italiana… Bello, quel tuo timbro, come il vento fra rocce dolomitiche, senza quel bonton falso, imbecille e truccato, che si pretende oggi: bella, quella voce che si sente, che travalica i muri, senza paura di essere eccessiva. Molti ti hanno definito eccessiva, in effetti, e sopra le righe, per quella risata che non faceva sconti, coinvolgente, come il tuo sorriso.
Amore per la vita mi hai sempre trasmesso con i tuoi film. Credo di non essermene persa uno, affascinata da quella nuvola bionda che erano i tuoi capelli e quando vidi che alla Pergola recitavi tu, con lo spettacolo La strana coppia, di Neil Simon, io mi precipitai in teatro.
Firenze offre sempre il meglio, ma in quegli anni, in cui io studiavo lì, superò se stessa. Ebbi modo di conoscere i più grandi attori di prosa: Vittorio e Alessandro Gassman in Affabulazione, Flavio Bucci, col Misantropo, Aroldo Tieri e Giuliana Lojodice, non ricordo in quale opera, poi Salvo Randone e Pino Michienzi, con Socrate, tratto da I dialoghi, di Platone, Andrea Giordana e Giancarlo Zanetti con La commedia degli errori, Valentina Cortese e il maestro Zeffirelli, prima assoluta nazionale dell’opera Maria Stuarda, Carmelo Bene, in una sua versione straordinaria e brevissima, dell’Otello, di Shakespeare, in cui mi affascinarono i virtuosismi vocali del Maestro…E tanto altro…
Ma il ricordo più fulgido è proprio il tuo, Monica.
Indelebile.
Come quando vidi, per la prima volta STARDUST – POLVERE DI STELLE, il tuo bellissimo film con Alberto Sordi, con la canzone irriverente che ancora canto a squarciagola, quando qualcuno mi fa arrabbiare e voglio fare dispetto:
“Ma ‘do vai, se la banana non ce ll’hai, bella hawayana, attaccati a ‘sta banana!”…
Come si fa a non amarti, Monica infinita?
Dicono che sei morta. Lo titolano i giornali, a caratteri cubitali, non nascondendo affatto il dolore. 90 anni, i tuoi, in cui, se la malattia non ti avesse ghermita così presto, avresti dato e dato, e dato ancora. Perché quello che mi hai sempre trasmesso, da lontano e poi da vicino, era il tuo estremo bisogno di dare, quell’estremo bisogno che alberga anche in me, quella voglia irrefrenabile di amare, senza limiti, senza neppure chiedere altro. Noi ci siamo riconosciute, in quell’arco breve d’una mezz’ora, in cui tu mi hai chiesto di me: cosa studiassi, come mai amassi così tanto il teatro. Cos’è questa, se non voglia di dare? Antidiva? Eh, no, Monica mia, tu eri, sei, e rimarrai sempre la DIVA per eccellenza. Hai fatto innamorare tutti col tuo calore, con la tua forza e il tuo amore per la vita. E, diva, da te in poi, ha acquisito un significato diverso, dall’aulico, freddo appellativo romano. Tu sei diva in carne e ossa e, al tempo stesso, angelica. Non riuscirò mai a parlare di te al passato. Come i divini antichi imperatori romani, tu aleggi, con la tua pregnante presenza e ci regali il vero esempio dell’essere italiani: non vergognarci mai della nostra anima colma di sole.
Quel sole che, dolce Monica, parafrasando Foscolo, risplenderà sempre sulle sciagure umane…
Grazie di essere sempre con noi e di insegnarci che la vita va protetta e vissuta, perché è il dono più bello.
Faccio tesoro di tutto ciò, perché anche a me fanno paura le persone che non vivono, quelle morte dentro (come dichiarasti nella bella, gioiosa intervista a Gigi Marzullo).
Dietro la tua volontà di gioire, dietro la ricerca appassionata dell’allegria, si celava anche quella velata tristezza, che appartiene all’umano e, quando ti prendeva, non la scacciavi, nel bisogno di essere felice a tutti i costi: la accoglievi, come in un abbraccio, aspettando che ti salutasse, per cedere il posto a quella gioia incontenibile che avevi dentro e che partiva da un sorriso.
Per questo ti amo, Monica: per essere incapace di mentire.
GRAZIE, per ora e per sempre.
Maria Palazzo