In un’epoca in cui la letteratura è spesso dominata da narrazioni veloci e trame complesse, è importante ricordare il potere delle parole semplici e dell’introspezione emotiva. “Elegia al Padre” di Vincenzo Guarna è un esempio straordinario di come la poesia possa toccare il cuore e l’anima, offrendo uno sguardo profondo sulla vita di un individuo e sul suo posto nel mondo. Lo scritto che segue esplora l’opera di Guarna nel contesto della letteratura italiana del Novecento, mettendo in luce le sue connessioni con autori di spicco dell’epoca. Questa analisi, punta ad offrire ai lettori una nuova prospettiva sulla poesia di Guarna e sul suo contributo alla letteratura italiana…
L’opera “Elegia al padre” di Vincenzo Guarna è un viaggio emotivo e introspettivo attraverso la vita del padre dell’autore. Questa poesia, che si colloca nel contesto della letteratura italiana del XX secolo, è un percorso intimo e struggente che si snoda attraverso i ricordi, le aspirazioni, le delusioni e le riflessioni. La poesia si apre con un ritratto della solitudine paterna negli ultimi anni di vita, un’immagine che richiama un senso di tristezza e rimpianto. Guarna impiega un linguaggio evocativo per dipingere la vita del padre, dalle sue origini alla sua carriera nella Guardia di Finanza, fino alla vecchiaia e alla morte. L’opera è pervasa da un senso di malinconia e perdita, ma anche da un profondo rispetto e amore per la figura paterna. Nel panorama della letteratura italiana del Novecento, “Elegia al padre” si distingue per la sua intensità emotiva e per la sua attenzione ai dettagli della vita quotidiana. La poesia riflette le tensioni e le contraddizioni della vita nel XX secolo, tra le aspettative sociali e le aspirazioni individuali, tra la realtà della vita quotidiana e i sogni di successo e riconoscimento. L’opera si inserisce in un filone della letteratura italiana del Novecento che esplora temi come l’identità, la memoria e il rapporto tra l’individuo e la società. In questo senso, “Elegia al padre” può essere vista come un contributo significativo a questo genere letterario e rappresenta un’opera di grande valore letterario e di profonda sensibilità emotiva che offre uno sguardo intimo e toccante sulla vita del padre, un ritratto che risuona con autenticità e forza emotiva. Nel contesto della letteratura italiana del Novecento, “Elegia al padre” rappresenta un contributo significativo alla comprensione della vita e delle aspirazioni dell’individuo nel contesto della società moderna. Essa si colloca all’interno del panorama letterario del Novecento, un periodo caratterizzato da una grande varietà di stili e correnti, ma anche da un intenso impegno sociale e politico. Essa riflette molte delle preoccupazioni e delle tensioni del secolo: la lotta di classe, la guerra, la solitudine e l’alienazione, la ricerca di significato in un mondo in rapida trasformazione. Questi temi sono comuni a molti autori del Novecento, da T.S. Eliot a Pablo Neruda, da Eugenio Montale a Pier Paolo Pasolini. La scelta di Guarna di utilizzare il verso libero, senza una struttura metrica o di rima rigida, riflette l’influenza del modernismo e delle avanguardie del primo Novecento, che cercavano di rompere con le forme poetiche tradizionali e di esplorare nuove possibilità espressive. Questo stile libero permette a Guarna di esprimere i suoi pensieri e sentimenti in modo più diretto e personale, senza le restrizioni imposte da forme poetiche più tradizionali. Allo stesso tempo, la poesia riflette l’impegno sociale e politico che caratterizza molta della letteratura del Novecento. Guarna non si limita a descrivere la sua esperienza personale, ma cerca di mettere in luce le ingiustizie e le disuguaglianze sociali, e di stimolare una riflessione critica sul mondo in cui viviamo. Si tratta di un impegno sociale e politico caratteristico di molti autori del Novecento fra cui Bertolt Brecht, Primo Levi, George Orwell e Gabriel García Márquez. L’attenzione di Guarna per la malinconia e la solitudine ricorda quella di Leopardi, mentre la sua capacità di esprimere emozioni complesse e sfumate ricorda l’opera di Montale. Sebastiano Timpanaro, uno dei più noti filologi e critici letterari italiani, ha espresso la sua ammirazione per “Elegia al padre” di Guarna. Timpanaro scrisse al Prof. Antonio Barbuto da cui l’aveva ricevuta corredata di una interessante analisi critica di quest’ultimo : “Io ho scarse letture di poesie contemporanea, e spesso non riesco a capire e ad apprezzare. Ma questa volta credo di aver capito tutto e sono rimasto ammirato: molto raramente, mi sembra, ho letto versi di questa rappresentazione, commossa e lucida e al tempo stesso di un dramma individuale che è insieme il dramma di una società. Tutto questo lei lo dice molto meglio di me nella Sua premessa critica: Le spetta il merito di avere scoperto un poeta vero e alto. Se ha occasione di vedere Vincenzo Guarna, vorrei che gli esprimesse la mia sincera ammirazione”.
Questa considerazione di Timpanaro aggiunge un ulteriore livello di apprezzamento all’opera di Guarna. L’elogio di un critico del calibro di Timpanaro sottolinea la profondità e la complessità dell’opera di Guarna, e la sua capacità di catturare sia le sfumature dell’esperienza individuale che le tensioni e le contraddizioni della società moderna. Questo riconoscimento da parte di Timpanaro conferma il posto di riguardo che merita Guarna tra gli autori della letteratura italiana del Novecento.
ELEGIA AL PADRE – di Vincenzo Guarna
Ora che il dolore s’allontana e il tempo
della tua morte, mi si rischiara intera
la solitudine che seppero i tuoi
ultimi anni dopo che un cardiologo
ti trovò danneggiato il miocardio
e compromesse, al limite, le arterie…
Come un animale ferito, sedevi
la gran parte dei tuoi giorni nel tuo
angolo di stanza e il tuo silenzio,
come un rimorso senza colpa,
mi feriva e offendeva. Poi ti guardavo,
così esile, così perduto nel lembo
di vita che t’avanzava e si scioglieva
la mia rancura in una pena muta.
Fuori il paese squallido e inerte,
la tua antica nostalgia, la pietra
di paragone mentre, di lontano,
solo, senza studi e ambizioso
ti faticavi il tuo povero successo
nella carriera della Guardia di Finanza.
Io pensavo al ritorno, una stupita
mattina d’infanzia.
Ho ricostruito la tua vita sull’ordito
dei tuoi avari ricordi, delle rare
confidenze: l’infanzia
miserabile e orgogliosa, le lodi
dei maestri di scuola per il tuo
forte ingegno, le vuote esortazioni
a continuare gli studi, il futuro
segnato, di stenti e umiliazioni
nella squallida bottega di tuo padre…
E già i tuoi antichi compagni
di scuola s’erano mutati: quelli
avviati agli studi, con gli occhiali,
i discorsi tra loro, il disagio
d’ignorarti; quelli chiusi nella
fatica con un cupo orgoglio
di condannati; gli altri, irrassegnati,
emigravano in America o
popolavano – col pietoso sdegno
del parroco, dal pulpito, le domeniche –
violenti e neghittosi le osterie.
Nelle sere di luna, di strade
Deserte, di rare finestre illuminate
ai palazzi, di silenzio, solitario
suonavi la chitarra e ti nasceva
dal ritmo, soave e dolorosa,
d’emergere alla chiusa dignità
del medico, del maestro, dell’avvocato,
una smania lunga che credevi invidia
ed era, inerme e inconsapevole,
un senso di giustizia e di rivolta.
Fin quando un manifesto affisso
nell’atrio del Comune
ti persuase ad arruolarti
nel corpo della Guardia di Finanza.
E venne l’ora della partenza, un giorno
gelido e tempestoso di febbraio
del millenovecentosedici. Avevi
diciotto anni. A piedi, solo
t’avviasti verso la lontana
stazione ferroviaria di Soverato
piangendo d’incertezza e di nostalgia.
Io so di una notte che trascorresti
all’addiaccio, tremando
di freddo e di paura in un cimitero
sul fronte d’Albania. Di tutta
la guerra che ti travolse
nel delirio d’Europa non mi resta
da te, che questo fragile ricordo.
Poi la pace, rapidi avvenimenti
di violenze, di sangue e di silenzio
duro, improvviso, lungo. Non potevi
capire, nessuno t’aiutava, oltre
uno smarrito senso di sconfitta
vasta, invisibile. Frequentavi il corso
allievi sottufficiali, diventasti
vice-brigatiere.
Ora, di quando in quando, ritornavi
Al paese e i notabili, con una
punta (sempre meno palese)
di condiscendenza ti tenevano
uno di loro, e gli antichi
studenti era come se
non ti avessero mai dimenticato. Ma
quelli dell’osteria
usavano con te una rancurosa
confidenza simile a un rimprovero
immeritato.
Poi fu la nostra infanzia, Zara,
Orsera, Fiume, S. Martino, Mattuglie,
Caisole. Di quegli anni non mi restano
che questi nomi, come un’eco
smarrita della memoria.
L’Europa s’estenuava in un’angoscia
di terrori e speranze quando
ti vinse la nostalgia dei ritorni.
Il mio ricordo degli anni che seguirono
è di prati e di colline
perpetuamente nel sole oltre le case
e i vicoli squallidi,
di donne sulle soglie attente ad una
violenza lontana
come una leggenda, che le scuoteva
a giorni, in urla di dolore.
Definitivamente entrato nell’accolita
dei notabili del paese ne scoprivi,
antichi e irrimediabili, l’inganno,
l’ipocrisia, il vuoto che si nutriva
d’odi meschini, di grottesche risse,
di vile prepotenza…
Non avevi scelta. Accettare quel mondo
non sapevi. Ma era
la meta di lunghi anni, di tenaci
sogni, non osavi distaccarti. Fuori
d’esso era maggiore il vuoto,
più sordo, più corrotto, ostile
a quella che solo potevi dare,
inutile pietà. Eri prigioniero
della tua vita.
Ora intendo i tuoi lunghi silenzi
delusi e amari, l’ire
eccessive e improvvise, l’ironie
il disprezzo. Ora intendo
la confusa, tenace, smisurata
speranza del mio avvenire. Con la fede
d’un escluso credevi
alla cultura come a un bene
sicuro e vasto
d’umanità, di forza e di giustizia.
Non si vince da soli. È assai
che tu abbia salvato
lungo la tua vicenda, fra le nebbie
dell’ignoranza, dell’orgoglio
lusingato, il senso
della giustizia e della
misura, l’ironia, il rispetto
agli altri, la dignità dinnanzi
a te stesso. Di più
non potevi.
T’aveva anche deluso la viltà
della mia solitudine, quando
come un’insidia certa e inevitabile
prese a serpeggiarti nelle vene,
la morte. Era ormai
la vecchiezza. Il paese nella
sua vicenda incessante
di risse e di miseria, di fughe
e di ritorni, straniava. T’avanzava
di tutta la tua vita, un senso
scontroso di vuoto e intense
tenerezze. Io non potevo capire
che a tratti, in silenzio.
Ora è un giorno d’ottobre, Satriano
è lontana, la giovinezza
è finita, da anni sei morto. E io
non voglio credere ch’è stata
inutile la tua vita.
Vincenzo Guarna
“Elegia al padre”, pubblicata in Galleria XXI, n. 6, nov-dicembre 1971 (galleria curata da Mario Petrucciani e stampata dall’editore Sciascia)