Divagazioni tra mosse e ricordi

Alcune di queste esperienze le ho già narrate, ma oggi le riprendo e le arricchisco, lasciandomi guidare dal pensiero di J.R. Capablanca: “Abbiamo soltanto l’età che avevamo quando abbiamo cominciato a giocare a scacchi, perché dopo cessiamo d’invecchiare.” …
Era un’estate qualsiasi, una di quelle in cui il tempo si dilata tra il sole che arroventa la sabbia e le serate profumate di salsedine. A Soverato, dove i giorni si somigliavano tutti e le amicizie estive duravano il tempo di una stagione, scoprii gli scacchi. Non fu un incontro voluto, ma più simile a un destino silenzioso che si svela solo col senno di poi. Avevo sette, forse otto, forse nove anni. Accadde in uno stabilimento balneare, anzi, diciamo in un lido – che fa più effetto – tra un bagno e un ghiacciolo al limone, mentre un gruppo di adulti, tra cui verosimilmente lo zio di un amico di giochi destinato a svanire con la fine dell’estate, si sfidava su una scacchiera. Rimasi incantato. Quelle figure immobili, solenni, in un ordine che non comprendevo, esercitavano su di me un fascino che le biglie colorate o i tappi che usavamo per sfidarci sulla pista tracciata dalla sabbia smossa dai nostri movimenti non avevano mai avuto. Il giorno dopo tornai a osservare. Nessuno mi notava veramente: un bambino che guarda, tutto qui. Ma in quei momenti silenziosi accadde qualcosa. Compresi. Non solo le regole, ma la logica nascosta dietro ogni mossa. E quando, in una partita, vidi un errore passare inosservato e una vittoria mancata per distrazione, non resistetti. “Avresti potuto vincere.” Lo affermai con la sicurezza incauta dei bambini. Mi guardarono sorpresi. “E tu che ne sai?” “Ho capito – risposi – come si gioca.” Non c’era presunzione in quelle parole, solo un dato di fatto. E volevo giocare. Forse per curiosità, forse per sfida, accettarono la mia richiesta. Giocai prima contro uno, poi contro l’altro. E vinsi. Due volte. Quell’estate, nel condominio dove vivevo, scoprii che c’era un mio coetaneo che conosceva il gioco. Suo padre, insegnante di fisica e matematica, era il suo mentore. Feci con lui qualche partita, poi anche con un altro piccolo amico che da noi aveva imparato. Giocavamo sulle scale del condominio, dividendoci tra gli scacchi e il Monopoli. Poi l’estate finì, e per anni non toccai più una scacchiera. Ma senza mai dimenticarla. Nel frattempo, il mondo era cambiato. I computer entravano nelle case e io passavo ore davanti a un Olivetti M20 tra stringhe di codice Basic e partite contro un programma che caricavo da un floppy da 5 e ¼ pollici. Il livello massimo era l’ottavo, ma il suo algoritmo pensava così a lungo che non riuscii mai a terminare una partita contro di lui. Ero ancora adolescente e mi fermai al settimo livello. Ancora oggi mi chiedo come sarebbe finita se solo avessi avuto più pazienza. Poco prima di iniziare l’università, durante una visita in URSS, mio padre a Mosca mi comprò una scacchiera. Costava 40 rubli: al cambio, pochissimo, ma per i russi dell’epoca aveva un grande valore. Quella scacchiera divenne il teatro di tante partite con mio zio Luigi, che non c’è più. Dopo pranzo, la tiravamo fuori e iniziavano le sfide, fatte di mosse studiate e di quell’immancabile “check” invece di “scacco al re”. Era un’abitudine che zio Luigi si portava dal Sudafrica, dove era stato tanti anni e dove aveva giocato. Ora quella scacchiera è ancora al suo posto, testimone silenziosa di quei momenti che non torneranno. Poi arrivò l’Università a Bologna. Via Zamboni, i portici e un circolo improvvisato di scacchi su tavolini di fortuna nei pressi del 36, dove il gioco si mescolava alla scommessa e a un piccolo guadagno. Mille, duemila lire a partita. Gli avversari erano studenti sicuri della loro forza, ma io avevo imparato a leggere le aperture, a riconoscere le intenzioni. Alla fine della serata, il profitto si traduceva in una piadina e qualche consiglio di tattica offerto agli sconfitti. Tra loro c’era anche qualcuno che oggi non è più fra noi, un volto che allora spesso era davanti a me e alla scacchiera e che oggi resta solo nella memoria. Forse è così con gli scacchi come con la vita: alcuni avversari scompaiono dalla scacchiera, ma le loro mosse restano dentro di noi. Poi gli scacchi sparirono ancora, stavolta per tanto tempo, tranne piccole, brevi riprese. Nuovi impegni, famiglia, lavoro… la vita. Durante il lockdown del 2020, però, in un mondo improvvisamente chiuso, gli scacchi tornarono a farsi spazio. Le piattaforme online pullulavano di nuovi giocatori e anch’io ripresi a muovere i pezzi, a sfidare avversari invisibili in partite che duravano il tempo sospeso di quei giorni uguali. Finito il lockdown, smisi di giocare di nuovo. Solo qualche mese fa ho ripreso. Oggi gioco online, partite rapide su uno schermo che non ha il sapore delle piadine condivise, ma conserva l’emozione della sfida. Perché, come diceva Capablanca, l’età si ferma nel momento in cui abbiamo iniziato a giocare a scacchi. E io, su quel lido di Soverato, ho cessato d’invecchiare.

Fabio Guarna