Ero andato su Amazon per comprare tutt’altro. Ma come accade nelle serendipità più riuscite, sono finito col prendere qualcosa di completamente diverso. L’algoritmo, che ormai conosce gusti, debolezze e probabilmente anche nostalgie, ha fatto centro. Tra i “suggeriti per te” è apparso un pallone dell’Inter: bianco, con grafiche spigolose in blu e nero, lo stemma del club al centro, moderno, quasi scolpito. Ha qualcosa di digitale, quasi futuristico, eppure avrebbe scatenato da lì a poco il contrario: un’ondata di ricordi. Di quelli con l’asfalto sotto i piedi, e nessun pensiero a interrompere il gioco. Il pallone su Amazon costava poco, appariva anche come un’occasione da non perdere (Amazon ci sa fare, eh!), e l’ho ordinato senza riflettere troppo. È arrivato in pochi giorni. Appena giunto a destinazione, l’ho gonfiato. L’ho osservato, come si fa con le cose nuove che sembrano già familiari. Era splendido. Poi l’ho portato fuori per provarlo. Qualche palleggio, principalmente col sinistro — il mio piede da sempre — quello della maglia numero 11, quando giocavo ala sinistra (una volta erano così i ruoli). E infine l’ho collocato al suo posto: nella zona nerazzurra della casa. Anche nei luoghi dove passo le giornate — che siano stanze, studi, uffici — c’è sempre un piccolo segnale: una rivista, un tappetino per mouse, un portapenne, una sciarpa che spunta, una matita, un gadget, un oggetto qualsiasi. Oggetti che non stanno lì per essere esibiti, ma per custodire o rappresentare qualcosa: una memoria, un’appartenenza sportiva, un’idea del calcio. Silenziosi, ma essenziali. Quel pallone appena arrivato, così splendente, così nuovo, mi ha fatto tornare agli anni dell’infanzia/quasi-adolescenza. Vi è mai capitato di giocare una partita di calcetto in cui le porte non erano una di fronte all’altra, ma una accanto all’altra? Probabilmente no. A me sì. Avveniva nella zona sud di Soverato, quando era periferia vera. Sotto casa, le porte erano due serrande di garage, sullo stesso lato della strada. Il campo era un rettilineo d’asfalto, stretto tra i marciapiedi. In mezzo c’era un piccolo canale, delimitato da ringhiere, che per noi era il burrone che separava un altro rettilineo. Il burrone non era profondo: bastavano due balzi per scenderci. Ma se la palla ci finiva, era fallo laterale, e toccava alla squadra colpevole andare a recuperarla. Se invece un fallo avveniva sul marciapiede, scattava il rigore, senza bisogno di VAR o discussioni. Bastava rivendicarlo, e tutto era deciso. Il calcio d’angolo o la rimessa dal “fondo” c’era se la palla toccava il muro fra le saracinesche. E il gol? Non aveva bisogno di applausi. Bastava che la palla colpisse la serranda con forza, e l’impatto metallico sanciva la rete, diffondendosi tra i palazzi come il boato di uno stadio vero. A me piace pensare San Siro. Quel rimbombo era il nostro gol da decine di migliaia di spettatori. Era il suono dell’impresa. Ovviamente non mancavano gli adulti che, quando i gol erano troppi, si affacciavano a lamentarsi. Si giocava senza orari. Finché c’era luce. O finché qualcuno non veniva a chiamarti per cena. E anche se prendevi dieci gol, bastava fare l’ultimo per tornare a casa come un eroe. Tutto questo avveniva nei mesi bui. Poi arrivava l’estate, la stagione del Super Santos. Arancione, leggero, instabile. Bastava un soffio di vento per farlo scappare. Ma era il nostro compagno di ogni pomeriggio rovente. Sulla sabbia si giocava fino allo sfinimento. Si tornava a casa pieni di sabbia, con la pelle bruciata dal sole e l’abbronzatura di un mese in un giorno. Il pallone che ho appena ricevuto — quello dell’Inter — non ha mai colpito una saracinesca, né ha rimbalzato su un marciapiede. Ma è come se l’avesse fatto. Sta lì, fermo, nella sua eleganza da vetrina. Ma dentro porta la voce di tutte quelle partite, giocate senza cronometro e finite con un sorriso. Non sarà mai bucato, ma è già consumato di memoria. E forse è questo il suo vero destino: non essere usato, ma evocare ricordi.
Fabio Guarna