A chi non è mai capitato di trovarsi in auto, lasciarsi accompagnare dalla radio oppure da una playlist suggerita — magari da YouTube Music, come mi è successo — e ritrovarsi, quasi senza volerlo, a richiamare alla mente episodi della propria vita o a riflettere su tante cose, spinti dalle musiche che casualmente si susseguono? A me che ho fatto tanti chilometri è spesso capitato. E capita anche in questo periodo che ne faccio meno. Così, un piccolo percorso di meno di mezz’ora è stato l’occasione per una delle tante riflessioni. Ma questa volta sembrava quasi suggerita, quasi fosse uno scherzo del destino per il modo in cui si sono susseguiti tre brani. Tre tracce italiane, d’autore — anche se l’ultima è senza parole — dove la natura è diventata occasione di pensiero. La prima che parte è “Il vecchio e il bambino” di Francesco Guccini. Un mondo che non c’è più, ma che qualcuno ricorda ancora. “Immagina questo coperto di grano…” dice il vecchio. E mentre Guccini canta, capisco che non è solo nostalgia: è il bisogno di tornare a vedere ciò che abbiamo smesso di notare. Campagne, cieli, silenzi che sapevamo comprendere. Poi arriva “Il suonatore Jones” (rielaborato da Spoon River) di Fabrizio De André. Il suonatore va, senza padroni. È la terra a dargli il tempo. Colline, vento, silenzi: tutto suona con lui. Nessuna lezione, solo un modo di stare al mondo. Libero, come chi ascolta prima di suonare. In un vortice di polvere gli altri vedevano siccità. Lui, invece, la gonna di Jenny. Perché quando la terra vibra, non tutti sentono la stessa cosa. Alcuni mancanza (siccità), altri memorie come lui che sentiva musica e ricordava un ballo di tanti anni fa mentre chi scrive, in quell’istante, torna con esattezza a vent’anni fa. Venti anni esatti. Nel frattempo, fuori dal finestrino, le curve si alternano lente, il cielo è ancora sospeso tra il sereno e il grigio. In quel tratto, mentre la musica continua a scorrere, mi accorgo che il paesaggio e i suoni sembrano rispondersi, quasi si fossero accordati. Il ritmo delle colline, il colore del paesaggio che ha sullo sfondo il mare, si intrecciano con i suoni che escono dalle casse. Non è solo suggestione. C’è una sintonia profonda, invisibile, ma reale. Come se le canzoni sapessero dove mi trovo. Come se la strada fosse parte della loro partitura. Infine, senza preavviso, parte Once Upon a Time in the West di Ennio Morricone. Solo note, ma sembrano nate dal paesaggio. La musica si mescola all’aria, alla luce, ai bordi della strada. Tutto diventa un solo respiro, lento e quieto. E il pensiero, invece di rincorrere, si lascia andare. Forse è questo il senso: quando fuori e dentro coincidono, non c’è più bisogno di capire. Solo di esserci. Intanto arrivo. Parcheggio. Stoppo la musica. E all’improvviso mi ricordo che è il momento di scrivere gli auguri di Buona Pasqua. Rientro nella realtà, quella fatta di messaggi brevi, formule ripetute, righe da pubblicare. Ecco, potevo limitarmi a girare l’augurio e tutto questo che ho scritto sopra lo avrei tenuto per me. Un pensiero sparso, uno di quelli che si lasciano sul sedile accanto e si dimenticano una volta parcheggiata l’auto. Ma siccome oggi volevo solo augurare una Buona Pasqua, e volevo scrivere qualcosa in più di una riga, ho pensato di farlo così: raccontando il momento che ha preceduto il pensiero stesso di scrivere l’augurio. In fondo, tra silenzi, natura e musica, è emerso un senso di passaggio, di rinascita quieta — e se non è questo, il cuore della Pasqua… Grazie a chi è arrivato fin qui a leggere. Perdonate la lunghezza del testo, era solo un pensiero. Il pezzo è stato scritto in anticipo, ma ho pianificato l’orario della pubblicazione, perché uscisse proprio a mezzanotte. Nel momento esatto della Pasqua. Buona Pasqua!!
Fabio Guarna