Ho già scritto questa testimonianza qualche tempo fa. Sono passati alcuni anni, ma non l’ho mai dimenticata. Forse perché certi racconti non si cancellano, semplicemente restano lì. Come appunti lasciati su una vecchia agenda o come ricordi sui social, che riaffiorano quando, quasi per caso, sfogli le pagine di un tempo o un post che credevi archiviato, ma che in realtà non lo è mai stato del tutto. Oggi, mentre scrivo, so che il partigiano di cui avevo parlato allora, Carlo Manente, è deceduto lo scorso anno. L’ho saputo di recente, eppure è come se fosse rimasto sempre accanto al mio ricordo. Originario di Catanzaro, faceva parte della Brigata Garibaldi. L’ho incontrato anni fa, e quel momento mi è rimasto impresso. Raccontava del giorno in cui si era trovato in fila, pronto per essere fucilato da una colonna di nazisti e fascisti. Parlava in modo semplice e diretto, senza retorica. “Eravamo disposti in fila – diceva – e uno alla volta i miei compagni venivano abbattuti. Una raffica al petto, un colpo alla testa. Li ho visti cadere uno dopo l’altro. Poi è toccato all’ultimo gruppo, quello in cui c’ero anch’io.” Proprio in quel momento accadde l’impensabile. Un disaccordo. Non sul destino dei condannati – che sembrava già deciso – ma su dove lasciare i corpi. Il gerarca nazista ordinò di abbandonarli sulla strada. Il fascista italiano si oppose: li voleva spostati. Nessuno cedeva. E quella frattura, quell’incomprensione assurda, interruppe il massacro. Le esecuzioni furono sospese. Trentuno caduti. Cinque salvi. Per caso. Tra loro, Carlo. “Mentre salutavo i miei cari la cui immagine si presentava nella mia mente quasi fossero lì – proseguiva nel racconto – vedevo i miei compagni cadere. Mi sentivo sospeso, come se il tempo non mi appartenesse più.” Quel fatto drammatico è parte della storia della Resistenza nell’alto Maceratese, tra Caldarola e Sarnano. Era il marzo del ’44. Le rappresaglie tedesche avevano già colpito l’ascolano – a Rovetino, Pozza, Umito – e si erano spinte fino a lì, dove i partigiani portavano avanti azioni di sabotaggio efficaci. Carlo era con un gruppo di patrioti guidati dal tenente Achille Barilatti. E quel nome, all’improvviso, non era solo un riferimento: divenne parte della storia che stava raccontando. Perché, anni dopo, mentre camminava per Roma, Carlo – così spiegava – alzò lo sguardo, quasi distrattamente, e lesse il nome della via che stava percorrendo: Via Achille Barilatti. Si fermò. Rimase immobile per qualche istante. Un nome diventato strada. Una storia che, per un attimo, gli venne incontro. Scrivere oggi questa memoria, in questo giorno, è un modo per rispondere a un appello che non ha voce. Carlo Manente non c’è più, ma le sue parole, quel suo respiro sospeso tra la vita e la morte, e quel gesto di guardare in alto, restano. E così, mentre il calendario segna il 25 aprile e le piazze si riempiono di memoria, queste parole mi sono tornate alla mente, quasi da sole, e ho sentito che andavano ripetute. Perché certe storie non chiedono di essere ricordate. Pretendono di essere tramandate. – Buon 25 aprile.
Fabio Guarna