Inter-Barcellona 4-3 (7-6): tie-break all’ultimo respiro. Finale conquistata

Non c’è modo di raccontarla con ordine, questa partita. Non si può. E forse non si deve. Non è materia da cronisti, ma da superstiti. Da chi, una volta uscito dallo stadio — o anche solo spento il televisore — ha vissuto una storia da raccontare per anni. Inter-Barcellona, semifinale di ritorno di Champions League. È finita 4-3. Ma sarebbe più onesto dire: è stata una centrifuga. Non solo di gol ma di emozioni, di sussulti, di quei colpi e di quelle ferite che solo il calcio, e solo l’Inter, sa dare, rendere sopportabili e, infine, rimarginare. Scelgo di scriverla di getto, questa cronaca, perché è l’unico modo per entrare nella verità del momento. Fermarsi a riflettere, scegliere le parole con cura, significherebbe già tradire l’urgenza. E anche la verità, che in certe notti non è oggettiva: è tutta nel battito che ti sale in gola e ti stringe il respiro. Nel dopopartita, mentre batto questo pezzo, una voce tra i commentatori in TV ripete: “… una delle più belle partite della storia della Champions.” E non è retorica. Solo un dato di fatto. Ma adesso cerchiamo di raccontare in sintesi i fatti. All’andata, a Barcellona, era stato 3-3. Quanto basta per trasformare quello che sembrava un obiettivo impossibile — ovvero eliminare dalla Champions la squadra di Lamine Yamal — in una speranza concreta. Ma perché ciò diventasse storia, era necessario aspettare San Siro… 6 maggio 2025, Milano. Stadio pieno. Ore 21:00, fischio d’inizio. Passano poco più di 20 minuti e Lautaro rompe il ghiaccio.
Poi, sul finire del primo tempo, Çalhanoğlu dal dischetto: due a zero. Si balla, sì. Ma con l’ansia in gola. Perché il Barça non è certo arrivato a Milano per fare da comparsa. E infatti, Eric García e Dani Olmo, al rientro dagli spogliatoi, nello spazio di pochi minuti, rimettono tutto in discussione. L’esultanza catalana all’87’, quando Raphinha sembra condannarci, ci arriva addosso come un montante e ci mette al tappeto. Sembra finita. E forse lo è. Ma non per l’Inter, che si rialza. Al 93’, Acerbi — il più “improbabile” dei nerazzurri — si trasforma in eroe e fa il 3-3, rimettendo tutto in gioco. Supplementari. Da lì in poi, non si ragiona più. Si resiste. Si spera. Si soffre, si soffre e si soffre. E al 99’, Frattesi trova il varco, il colpo: Inter 4 – Barcellona 3. Il resto è un assedio spagnolo, con Sommer che si allunga oltre i propri limiti, somigliando a Reed Richards (Mister Fantastic) dei Fantastici Quattro — per chi è cresciuto negli anni in cui i supereroi si trovavano tra le mani in edicola, non sullo streaming. E infine quel fischio. Che non è solo la fine di una partita, ma la smentita più bella a chi ci aveva catalogati tra quelli che non arrivano mai in fondo. Inter in finale.
Il risultato complessivo è 7-6. Sembra il punteggio di un set a Wimbledon, ma racconta una sfida giocata col cuore, senza colpi facili: ogni punto conquistato, ogni errore pagato.
Un’Inter da fondo campo, che non brilla ma resiste. Se qualcuno non c’era, pazienza. Non potrà capire. Perché certe partite non si spiegano. Non si archiviano. Si ricordano.Come una frase ascoltata da bambino, che non hai mai dimenticato. Adesso, prima di andare a letto, giocherò la mia solita partita a scacchi con un’idea sola in testa: anche un pedone, se arriva in fondo, può diventare regina. Come accaduto a San Siro.

Fabio Guarna