Vincenzo Guarna

Vincenzo Guarna: divagazione n. 1

Vincenzo Guarna è stato preside in diversi istituti calabresi. Negli anni '70 dirigeva l'Istituto Tecnico Commerciale Amministrativo e per Geometri di Soverato dove peraltro aveva insegnato lettere per diversi anni. Vi riportiamo un comunicato diramata all'epoca da Vincenzo Guarna indirizzato a tutti i Professori dell'Istituto Tecnico che qualcuno ha conservato negli anni. La nota si caratterizza per lo stile ironico e pungente nonché per i riferimenti letterari. Uno stile che Guarna spesso usava nel redigere circolari o comunicati.OGGETTO: DIVAGAZIONE n. 1Immaginino i sigg. colleghi, una barca, una grossa e vecchia barca in mezzo al mare A bordo quattro uomini stanchi. La barca avanza nel mare perché, come scrisse D'Annunzio, “navigare necesse este” (Veramente, a un abate che concludeva il suo discorso al vescovo con la frase: “Devo pur vivere”, il vescovo rispose: “Francamente non ne vedo la necessità”!) A un tratto si apre a poppa una falla. Immediatamente uno dei quattro uomini corre ai ripari, prima con le mani poi con tamponi di fortuna.  Risolve. Un altro uomo, intanto, aggetta l'acqua imbarcata. Ma ecco una nuova falla, un nuovo correre ai ripari, un aggettare sempre più rapido, sempre più concitato. E ancora un'altra falla: ora tutti e quattro gli uomini sono al lavoro. Non fanno in tempo a tamponare una falla che se ne apre un'altra, l'acqua imbarcata aumenta trabocca. Questa è la storia di una vecchia grossa barca in mezzo al mare. Immaginino i sigg. colleghi che la vecchia grossa barca sia questa scuola, le falle siano i vuoti provocati dalle assenze repentine dei docenti, i quattro uomini stanchi sono  lo scrivente e i suoi collaboratori.Fine della divagazione n. 1

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Niobe – di Vincenzo Guarna

NiobeA uno a uno se ne sono andati, hanno una loro casa e una tomba nel vento della sera...Troppe memorie, una nebbia di passato: ora la grande casa piena di silenzio e d'ombra; attendo di morire.Vincenzo Guarna "TRE ISTORIE" Estratto da “Galleria” n. 1-2 Gennaio Aprile 1967

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Epigrafe – di Vincenzo Guarna

EPIGRAFEScrivete sulla mia tomba: “VissePer ischerzo”. Il mioinfernoin questa epigrafe. Perchéi giorni tramarono vicendee io in quelle vicende,senza convinzione: animadivisa, inertevolontà. E vissiper ischerzo e ogginullaè veramente mio. Un murosotto la luna, il tediodei ricordi, questovuoto disagio.Vincenzo Guarna“TRE ISTORIE”Estratto da “Galleria” n. 1-2 Gennaio Aprile 1967

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La cultura calabrese piange Vincenzo Guarna

Scansione dell'articolo Nato da genitori satrianesi in Jugoslavia(allora in parte italiana) era sempre vissuto a SatrianoCon la scomparsa di Vincenzo Guarna  la cultura calabrese è in lutto è stato da più parti sottolineato nell'anniversario della sua recente scomparsa. Vincenzo Guarna, da Satriano, era un intellettuale profondo, che sapeva trovare il gusto della vita nella poesia e nella sua spiccata vocazione di educatore. Riservato quanto aperto alla dinamica culturale moderna aveva in  Eugenio Montale  il simbolo e l'amante per il culto del sapere legato alla stravaganza della vita della quale bisogna saper cogliere gli attimi di ispirazione e i reconditi pensieri che s'annidano nell'animo dell'uomo.Vincenzo Guarna è stato educatore e Preside in diversi Istituti della provincia di Catanzaro, ma il suo “rifugio” preferito è stato l'Istituto Alberghiero di Soverato che  adesso ha deciso di intestare la scuola al suo nome, alla sua persona perché per anni  aveva saputo prendere per mano e portarla in alto, tant'è che il suo Istituto, i suoi chef, la sua scuola è divenuta nota anche all'estero. Vincenzo Guarna era nato in Jugoslavia (allora una parte era italiana) dove il padre satrianese era maresciallo nella Finanza, ma Vincenzo Guarna era cresciuto a Satriano e a Satriano è rimasto legato fino alla sua prematura scomparsa. Qui conta sempre i suoi amici veri che continuano a ricordarlo con affetto e che hanno seguito la sua ascesa con orgoglio e trepidazione. Viene ricordato ragazzo, giovane, uomo professionista affermato e cultore di Eugenio Montale. Il suo ultimo lavoro è proprio su Montale “Satura lanx” dove l'acume di Vincenzo Guarna  riesce a interpretare e a dare l'esatto intendimento di Montale al termine latino “satura”, inteso come mescolanza di toni elegiaci e lirici da una parte e satirici dall'altra, e di cui è permeata la poesia di Montale. Vincenzo Guarna oltre a studi su Montale ha lasciato parecchi scritti  in prosa e poesia e ultimamente stava lavorando  ad una storia su Satriano  intorno agli anni 1938 “quando a un tratto si immerse nell'inverno e nel Medioevo. Spazzata da un gelido vento di tramontana l'aria si fece tesa e vetrina, i giorni divennero cupi e brevi, e al tramonto lente processioni percorsero salmodiando le strade, si fermarono supplici ai calvari, s'incontrarono ai crocevia e ivi sostarono ad ascoltare predicatori estemporanei compitare dall'alto di una scala o di un balcone, terrei in volto per il clima e la novità dell'esperienza, lunghi fogli dal linguaggio apocalittico intriso di esclamazioni”. Amava Montale, la Scuola, la sua famiglia e sul padre sofferente, tra l'altro, scriveva “Come un animale ferito,sedevi/ la gran parte dei tuoi giorni nel tuo/ angolo di stanza e il tuo silenzio,/ come un rimorso senza colpa,/ mi feriva.”. A Messina, dove si era laureato con il massimo dei voti e la pubblicazione della tesi su Montale, conobbe la compagna della sua vita, Adelaide, e così insieme a Montale ha dovuto riservare il suo amore anche alla moglie, ai due figli Francesca e Fabio e alla sorella Rina che continuano ad essergli vicini e considerarlo sempre presente, con la Bibbia, ossia Montale sul comodino accanto al  suo letto.Raffaele Ranieri (Fonte: Gazzetta del Sud)

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Elegia al padre di Vincenzo Guarna

Ora che il dolore s'allontana e il tempo della tua morte, mi si rischiara intera la solitudine che seppero i tuoi ultimi anni dopo che un cardiologo ti trovò danneggiato il miocardio e compromesse, al limite, le arterie...Come un animale ferito, sedevi la gran parte dei tuoi giorni nel tuo angolo di stanza e il tuo silenzio, come un rimorso senza colpa, mi feriva e offendeva. Poi ti guardavo, così esile, così perduto nel lembo di vita che t'avanzava e si scioglieva la mia rancura in una pena muta.Fuori il paese squallido e inerte, la tua antica nostalgia, la pietra di paragone mentre, di lontano, solo, senza studi e ambizioso ti faticavi il tuo povero successo nella carriera della Guardia di Finanza. Io pensavo al ritorno, una stupita mattina d'infanzia.Ho ricostruito la tua vita sull'ordito dei tuoi avari ricordi, delle rare confidenze: l'infanzia miserabile e orgogliosa, le lodi dei maestri di scuola per il tuo forte ingegno, le vuote esortazioni a continuare gli studi, il futuro segnato, di stenti e umiliazioni nella squallida bottega di tuo padre…E già i tuoi antichi compagni di scuola s'erano mutati: quelli avviati agli studi, con gli occhiali, i discorsi tra loro, il disagio d'ignorarti; quelli chiusi nella fatica con un cupo orgoglio di condannati; gli altri, irrassegnati, emigravano in America o popolavano – col pietoso sdegno del parroco, dal pulpito, le domeniche – violenti e neghittosi le osterie.Nelle sere di luna, di strade Deserte, di rare finestre illuminate ai palazzi, di silenzio, solitario suonavi la chitarra e ti nasceva dal ritmo, soave e dolorosa, d'emergere alla chiusa dignità del medico, del maestro, dell'avvocato, una smania lunga che credevi invidia ed era, inerme e inconsapevole, un senso di giustizia e di rivolta.Fin quando un manifesto affisso nell'atrio del Comune ti persuase ad arruolarti nel corpo della Guardia di Finanza. E venne l'ora della partenza, un giorno gelido e tempestoso di febbraio del millenovecentosedici. Avevi diciotto anni. A piedi, solo t'avviasti verso la lontana stazione ferroviaria  di Soverato piangendo d'incertezza e di nostalgia.Io so di una notte che trascorresti all'addiaccio, tremando di freddo e di paura in un cimitero sul fronte d'Albania. Di tutta la guerra che ti travolse nel delirio d'Europa non mi resta da te, che questo fragile ricordo.Poi la pace, rapidi avvenimenti di violenze, di sangue e di silenzio duro, improvviso, lungo. Non potevi capire, nessuno t'aiutava, oltre uno smarrito senso di sconfitta vasta, invisibile. Frequentavi il corso allievi sottufficiali, diventasti vice-brigatiere.Ora, di quando in quando, ritornavi Al paese e i notabili, con una punta (sempre meno palese) di condiscendenza ti tenevano uno di loro, e gli antichi studenti era come se non ti avessero mai dimenticato. Ma quelli dell'osteria usavano con te una rancurosa confidenza simile a un rimprovero immeritato.Poi fu la nostra infanzia, Zara, Orsera, Fiume, S. Martino, Mattuglie, Caisole. Di quegli anni non mi restano che questi nomi, come un'eco smarrita della memoria.L'Europa s'estenuava in un'angoscia di terrori e speranze quando ti vinse la nostalgia dei ritorni. Il mio ricordo degli anni che seguirono è di prati e di colline perpetuamente nel sole oltre le case e i vicoli squallidi, di donne sulle soglie attente ad una violenza lontana come una leggenda, che le scuoteva a giorni, in urla di dolore.Definitivamente entrato nell'accolita dei notabili del paese ne scoprivi, antichi e irrimediabili, l'inganno, l'ipocrisia, il vuoto che si nutriva d'odi meschini, di grottesche risse, di vile prepotenza…Non avevi scelta. Accettare quel mondo non sapevi. Ma era la meta di lunghi anni, di tenaci sogni, non osavi distaccarti. Fuori d'esso era maggiore il vuoto, più sordo, più corrotto, ostile a quella che solo potevi dare, inutile pietà. Eri prigioniero della tua vita.Ora intendo i tuoi lunghi silenzi delusi e amari, l'ire eccessive e improvvise, l'ironie il disprezzo. Ora intendo la confusa, tenace, smisurata speranza del mio avvenire. Con la fede d'un escluso credevi alla cultura come a un bene sicuro e vasto d'umanità, di forza e di giustizia.Non si vince da soli. È assai che tu abbia salvato lungo la tua vicenda, fra le nebbie dell'ignoranza, dell'orgoglio lusingato, il senso della giustizia e della misura, l'ironia, il rispetto agli altri, la dignità dinnanzi a te stesso. Di più non potevi.T'aveva anche deluso la viltà della mia solitudine, quando come un'insidia certa e inevitabile prese a serpeggiarti nelle vene, la morte. Era ormai la vecchiezza. Il paese nella sua vicenda incessante di risse e di miseria, di fughe e di ritorni, straniava. T'avanzava di tutta la tua vita, un senso scontroso di vuoto e intense tenerezze. Io non potevo capire che a tratti, in silenzio.Ora è un giorno d'ottobre, Satriano è lontana, la giovinezza è finita, da anni sei morto. E io non voglio credere ch'è stata inutile la tua vita.Vincenzo Guarna

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Satriano, 1936 e dintorni di Vincenzo Guarna

IntroduzioneVincenzo GuarnaIl brano che segue è paragrafo intermedio di un lungo racconto che l'autore ha scritto tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70 (senza peraltro mai pervenire alla sua stesura definitiva) e che, meritamente, a suo dire, egli subito dopo ha confinato in un cassetto dove tuttavia giace probabilmente per sempre. Si tratta di un racconto, a suo modo, “corale” essendone protagonista - nella seconda metà degli anni '30 e dintorni (1936-1940) - la comunità di Satriano e, a margine di questa la figura del suo Podestà. Un giovane avvocato, quest'ultimo, autoconfinatosi, senza vera convinzione, nel paese d'origine (destinazione, a sua volta e all'epoca, di veri “confinati” ossia dissidenti politici ovvero antifascisti di piccolo calibro e spessore) dopo un promettente inizio di carriera nella capitale dove si era laureato e aveva frequentato, con qualche positivo riscontro i freschi ambienti intellettuali interessati, soprattutto, alla “nuova arte” del cinema. Un'ultima annotazione. Lungo il contesto del racconto sono presenti, qua e là, abilmente fusi e mimetizzati al suo interno, brevi passi di autori più e meno noti della letteratura italiana (Giovanni Villani, Ludovico Ariosto, Gabriele D'Annunzio, etc.). È un “divertissement” cui l'autore indulge senza alcun fine speciale e che, per dire, trova riscontro più frequentemente di quanto non si supponga, in molti prodotti in prosa e in verso della nostra letteratura. Nel brano che riportiamo in calce questo, per così dire, “escamotage” è presente dove si parla del pensiero della morte divenuto in Satriano, come effetto della missione dei padri Redentoristi di Sant'Andrea, “pensiero se non predominante, dominante” (il flash è tratto dal saggio che B.Croce dedica al Foscolo in “Poesia e non poesia”); nella descrizione della figura fisica di padre Anoia nell'atto in cui il religioso si accinge a tenere nel Duomo del paese, la formidabile predica conclusiva della “missione” da lui guidata (il brano è desunto dal ritratto che Alessandro Manzoni fa di Padre Cristofaro – vedi “I Promessi sposi”); quindi in epilogo, nell'endiadi “le colonne e i simulacri”, tratta da LeopardiSATRIANO, 1936 E DINTORNIdi Vincenzo GuarnaTra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1938 Satriano, a un tratto, si immerse nell'inverno e nel Medioevo. Spazzata da un gelido vento di tramontana l'aria si fece tesa e vetrina, i giorni divennero cupi e brevi. E al tramonto lente processioni percorsero salmodiando le strade, si fermarono supplici ai calvari, s'incontrarono ai crocevia e ivi sostarono ad ascoltare predicatori estemporanei compitare dall'alto di una scala o di un balcone, terrei in volto per il clima e la novità dell'esperienza, lunghi fogli dal linguaggio apocalittico intriso di esclamazioni. Il fenomeno, ristretto all'origine ai ceti e alle generazioni, per così dire, di mezzo e caratterizzato da un non so che di gioco, ben presto si incupì e crebbe e coinvolse l'intera comunità. Si può dire che il pensiero della morte divenne in tutti se non predominante, dominante e, con esso, l'intero suo corteo di umane reazioni diverse a seconda dell'indole e della situazione dei singoli e dei gruppi. Si videro antiche inimicizie trascolorare e dissolversi come nebbie d'alba; altre farsi più dense e feroci; delinearsi nuovi patti; infrangersi solide consuetudini. E ben presto corsero voci di nascite mostruose e di eventi straordinari nei paesi vicini: e chi rinvenne sul dorso di una foglia portata dal vento nel suo balcone, chiaramente disegnata la spirale di un serpente; chi tornando a sera, dal suo lavoro in montagna, travide nell'intrico del bosco un piccolo animale di forme ignote e orribili. Fu anche, quello, il momento di maggior fortuna dei più poveri, ossia di quel particolare ceto sociale che erano a Satriano i più poveri: non mendicanti ma piuttosto clientes di una o più famiglie, da quelle meno bisognose a quelle più agiate e dalle quali, in cambio delle prestazioni più varie e diverse, ottenevano soccorso, raramente in danaro, più spesso in natura o in altri modi (una bottiglia d'olio non del migliore; un fiasco di vino sul punto di andare a male; un grumo di fagioli e di ceci spesso stantii. Ma anche un intervento presso le autorità per il disbrigo di una pratica o per la concessione di un contributo “governativo”, come usava dire, e altro ancora). Nella congiuntura, il soccorso essi l'ottennero con più frequenza e maggior garbo del solito e fu meno parsimonioso e, in alcuni casi, della migliore qualità. Ancorché fossero divenuti meno umili e talora quasi biechi e torvi nel richiedere e meno solleciti e persino restii nel proporre e rendere i loro servigi. Radice e alimento di questo complesso fenomeno era stata ed era l'opera di tre padri Redentoristi del vicino convento di Sant'Andrea venuti in paese a svolgere, - come è nei compiti dell'Ordine - una delle loro “missioni” intese a potenziare il sentimento religioso dei fedeli e a promuovere tra quelli un'intensa vita cristiana. Efficienti, pieni di zelo, infaticabili, essi, senza perdere tempo, già dal primo giorno del loro arrivo si erano messi all'opera. E uno, padre Conca, aiutato dalle suore di Maria Ausiliatrice, aveva preso ad attivare le donne e i ragazzi; un altro, padre Silva, aiutato dall'arciprete, gli uomini; il terzo, infine, padre Anoia, il leader per così dire dei tre, aveva dato inizio, la sera nella chiesa matrice alla sua predicazione (giudicata subito e a tutti i livelli, possente e straordinaria) che ebbe la funzione di coordinamento della “missione” e diede ad essa il tono, la tensione e il fervore che la caratterizzarono. In realtà, se grande fu il successo di padre Conca e di padre Silva, quello di padre Anoia fu addirittura eccezionale: le sue prediche conquistarono rapidamente tutti, dalla più oscura beghina ai notabili dell'una e dell'altra fazione, ai due dottori. Ascoltarle divenne, la sera, un'occasione da non perdere a nessun patto. Persino il Prof. Bevilacqua, trovandosi, com'era solito, a Satriano, pur premettendo d'essere “idealista”, anzi “attualista” e, dunque “ateo nel senso non volgare del termine” non si astenne dall'ascoltarne una e, ascoltatala, dal lodarne, - a malgrado, come disse “una qual certa carenza di rigore logico”- il “vigore fantastico”, la “potenza delle immagini”, insomma “l'altissima qualità letteraria”. Erano, per farla breve, veramente “da innalzar l'idea” come notò Antonio Ferraro. Certo fu a causa delle sue nefaste condizioni di mente e non già per non essere egli, d'abitudine, frequentatore della chiesa e delle sacre funzioni che il podestà quasi per tutta la durata della missione se ne privò, prediligendo (con scelta che le rammaricate esortazioni e sollecitazioni piovutegli da mille parti, perché ne desistesse non valsero a modificare e che non mancò di suscitare delusioni e sfavorevoli giudizi in tutti gli ambienti riguardo la sua intelligenza e cultura) di percorrere contemporaneamente su e giù il paese fatto, per la circostanza nuovamente e meravigliosamente deserto e come abbandonato, vuote le strade lacerate dal vento, sbarrate le porte, senza fumo i camini sui tetti. Quando però, nella penultima predica, lo stesso padre Anoia, dal pergamo si dolse della sua continua assenza, gli fu giocoforza mutare orientamento e l'ultima sera in compagnia della moglie orgogliosa e raggiante si portò in chiesa insieme a tutta la comunità locale. Quando vi giunse, - in ritardo perché sino all'ultimo, per una sorta di amaro e giocoso puntiglio, da quelli indotti, aveva resistito agli inviti della consorte -, le funzioni preliminari erano concluse e già padre Anoia, montato sul pergamo stava immobile, eretto il busto, il capo chino, le mani afferrate all'orlo della balaustra, non in preghiera, ma teso, assorto, remoto. Entrati in chiesa i due subito si separarono: la moglie attenta a non fare rumore e provocare scompiglio raggiunse il suo posto, tra le file dei banchi della navata centrale, nella zona che, per l'uso cui essa era adibita, l'arciprete, dottamente ma impropriamente chiamava “matroneo”; il podestà rimase con gli altri uomini in piedi nell'androne della navata stessa, nella zona cioè che, insieme con le navate laterali, indicheremo, sempre con l'occhio all'uso cui erano adibite e per non apparire men dotti dell'arciprete, anche se parimenti impropri, come “androneo”. Sotto padre Anoia la chiesa era gremita sino all'inverosimile, il silenzio era folto, compatto, appena segnato, qua e là, da un bisbiglio subito dissolto, da uno strusciare di panca subito spento. Si udiva in alto attraverso le nere vetrate, cupo, sincopato, il rumore del vento. Poi, perdurando il silenzio, il vento parve interrompersi e padre Anoia, eretto il capo, proteso con gesto affabile e tuttavia nervoso il braccio destro, si accinse a parlare. Era un uomo più vicino ai cinquant'anni che ai sessanta; il capo aveva nudo, salvo una piccola corona di capelli che vi girava intorno, le guance e il mento incavati, rilevata la parte superiore del volto, grandi e come ardenti d'una interna febbre gli occhi. Disse: “un funestissimo annunzio son qui a recarvi, o cari fedeli, e vi confesso che non senza un'estrema resistenza mi ci sono addotto troppo pesandomi di dovervi contristare così tanto l'ultima sera che mi intratterrò con voi”. Un sentimento misto di preoccupazione e di lutulenta ammirazione percorse la folla. Riprese padre Anoia: “solo in pensare a quello che vi devo dire sento agghiacciarmisi, per grand'orrore, le vene. Ma che gioverebbe il tacere? Il dissimulare che varrebbe? Ve lo dirò …” E fece una pausa. Ormai tra gli ascoltatori l'ammirazione aveva ceduto il campo alla preoccupazione, questa si tingeva di sgomento e già alcuni s'interrogavano sulle proprie colpe e su quelle del vicino; altri pensarono a qualche grave delitto che li avesse coinvolti e del quale ancora fossero ignari; altri si guardarono negli occhi; altri elusero l'altrui sguardo. Continuò padre Anoia: “ve lo dirò … tutti, quanti siamo qui, o giovani o vecchi, o uomini o donne, o ricchi o poveri, dotti e indotti, tutti un giorno dovremo morire: “statutum est hominibus semel mori …” Era, quanto andava dicendo padre Anoia, con piccoli adattamenti, l'esordio della prima predica del noto Quaresimale che il Gesuita Fra' Paolo Segneri (1624-1697) tenne nel Duomo di Modena in occasione della Pasqua 1667 e, precisamente, di quella che pronunciò il Mercoledì delle Ceneri. Ma nessuno lo seppe e tutti, invece, appreso in che consistesse il funestissimo annunzio, provarono un senso di sollievo subito, peraltro, venato di rimorso. Nel podestà esplose, in forma esasperata, l'usato disagio: egli si sentì stretto dalla folla e desiderò fuggire via, ma rimaneva immobile e gli sembrava di soffocare. Padre Anoia incalzava: “ohimé, che veggo? Nessuno di voi si scuote a tanta notizia? Nessuno cambia di colore? Nessuno si muta in volto? Persino in cuor vostro ridete di me che vengo a presentarvi come novità una cosa così nota? Che ognun sa? Quis est homo qui vivet et non videbit mortem?” Sono tra la gente, più numerosi di quanto comunemente si pensi, attori e attrici di singolare e schietta tempra: affatto ordinari d'abito e d'aspetto essi vivono, momento per momento, la loro vita, per quanto trita e banale essa possa essere, con una capacità di immedesimazione, una tensione scenica, un sentimento del tempo, un istinto del pubblico per niente inferiori a quelli del grande interprete di teatro o dell'istrione più consumato. Fu un'attrice così, una buia beghina che, avendo fatto seguire padre Anoia, alla sua citazione in latino, un silenzio duro e minaccioso incombente sulla folla, scattò in piedi dal suo posto in prossimità del presbiterio e con voce acuta e disperata, protese al cielo le braccia gridò: “Signore pietà, pietà Signore, pietà …”. A quel grido, nella folla fu dapprima un ondeggiamento, presto seguito nel matroneo da un incrociarsi di voci, alcune interrogative, altre perplesse, altre già commosse. Poi d'un tratto esplosero, da molte parti, pianti di bambini e strepiti di donne cui dagli andronei si sovrapposero robuste voci invitanti alla calma che confusero e peggiorarono la situazione. E fu chi credette a qualche svenimento improvviso fra la folla e girò interrogativamente il suo dubbio al vicino il quale, scambiata la domanda per notizia, la passò in questa forma ad altri che, pessimista per natura, si convinse e riferì d'un decesso improvviso; chi temette che lo assediasse, rimanendogli ignoto un qualche orrendo prodigio; altri si persuase d'avere avvertito i preludi di un sisma, altri ancora pensò fosse giunta e si stesse diffondendo notizia d'una qualche esterna catastrofe. Fu un momento terribile. Già la folla era sul punto di slanciarsi verso le uscite: si sarebbe travolta, pestata, intasata, accoppata, dilacerata, ne sarebbe derivata una carneficina. Per fortuna, padre Anoia che per la sua posizione eminente aveva potuto avere la massima contezza della situazione nella rapida successione delle sue fasi, superato agevolmente un primo momento di imbarazzo e disorientamento, intervenne in tempo a decantarla. E fosse perizia o solo un felice istinto, lo fece nel migliore dei modi, senza scadere, cioè, in lunghe spiegazioni e vane esortazioni alla calma, ma riprendendo, facendo suo e amplificando - e in questa forma implicitamente chiarendolo e illustrandolo - l'evento che l'aveva provocata: “sì - gridò con voce robustissima - pietà o Signore, pietà della nostra forza che è debolezza e della nostra debolezza che è forza, pietà della nostra povertà che è ricchezza e della nostra ricchezza che è povertà, del nostro odio e del nostro amore, del nostro orgoglio e del nostro pregiudizio …”. La tensione della folla prese a sciogliersi: le voci, lo strepito calarono subito di tono, diradarono; rimase un brusio diffuso, il pianto disperso d'un bambino e ancora qua e là qualche colpo di tosse. Poi fu nuovamente silenzio. Continuò padre Anoia protendendo il capo e le braccia verso il cielo: “cosa altro, Signore, possiamo offrirti se non la nostra domanda di pietà? Hai visto, stasera, o Signore, la nostra fragilità, la nostra viltà, la nostra inettitudine, e forse è stato questo un modo della tua imperscrutabile sapienza per dirci, ancora una volta, che siamo nulla, per ripetere alle nostre coscienze disperse e ottenebrate che siamo polvere: memento homo, memento homo quia pulvis es”. Mai più l'uomo è disposto al pianto di quando sia emerso, indenne, da un grave spavento: intanto che il suo cuore, come avulso da tutto il resto, continua anzi accentua il ritmo frenetico, il nodo dei suoi nervi si discioglie, la sua mente si sgombra, gli attraversano l'anima mille rivoli di ignota tenerezza. Simile se non uguale a questo era, in quel momento, lo stato degli ascoltatori di padre Anoia che intanto, passato dal Segneri al Bartoli (1), con voce triste e arcana diceva: “tutti siam qui passeggeri, e tutti, chi prima e chi poi, arriveremo al termine. Ma corrano, com'è in uso, le vite e le età comparate tra sé, e perciò altre lunghe, altre corte, non per tanto è vero che quelle e che queste sono ugualmente un medesimo viaggiare che finisce. E ancor qui ‘dies diei eructat verbum', perché l'un giorno ci rammenta la manchevolezza dell'altro e tutti insieme il consumare della vita …” Mentre egli così parlava, una donna e poi più in là un'altra e un'altra ancora più in là, si misero a piangere: e quel pianto, come un contagio, dapprima incerto ed esitante, poi sempre più rapido e deciso, divagò, si espanse invase tutto il matroneo. Poi rimbalzò nella navata laterale destra e qui, per un istante, indugiò, ristagnò, parve rompersi. Ma tosto, ripreso vigore, si mosse, scivolò, serpeggiò, dilagò irrefrenabile. “Vi sarà certo avvenuto di viaggiar fuor del vostro paese; e certo avrete osservato mille varietà di scene, or belle, or brutte, e paesaggi d'ogni genere, mai visti prima. Tutto questo ‘iuvit spectare, delectavit parumper attendere; dum attendis pertransisti'. Fatta sera e giunti alla meta che vi rimase di tutto ciò? Nulla, certo, tranne una debole memoria …” Ormai tutti, - si direbbe l'intera comunità satrianese - piangevano e tutti, - pur nella varietà dei pianti conformi all'indole e allo stato di ciascun piangente - ponendo, chi più chi meno, una schietta cura a non produrre moto o suono oltre al necessario. Chi esibiva, come un trofeo, le sue lacrime; chi si provava a respingerle dietro un vano sorriso che presto si mutava in una smorfia dolorosa. Qui un uomo ancora asciutto, vistosi a lato il suo nemico col volto umido e stravolto, gli tendeva in un impulso di fraternità la mano e, in atto, anche il suo volto si storceva e gli occhi si inondavano di lacrime. Là una donna chinava in forma di estrema spossatezza il volto sulla spalla della sua vicina e tosto violenti sussulti la scuotevano tutta. E c'era chi, gli occhi chiusi, enfiava le gote e poi più e più volte soffiava dalle labbra contratte. E chi, ostentando indifferenza, indirizzava con inusitato interesse lo sguardo ai rosoni del soffitto finché la sua vista si velava e annegava in una pozza di lacrime costringendolo a chinare, come in atto di dolorosa umiltà, la fronte sul petto. Si videro donne abbracciarsi e mescolare lacrime e sospiri e uomini di fiera tempra fare al viso coppa delle mani ed esprimere in questa posa un gemito sottile interminato. Altri estrarre dalla tasca il fazzoletto e portarselo al naso e soffiarvi dentro ripetutamente e intanto con gesto furtivo asciugarsi coi lembi l'umidore delle gote. Altri ancora mordersi ora le labbra, ora le dita, ora le mani contratte. E donne, poggiata l'umida bocca sulla spalliera del sedile antistante, inciderne coi denti il legno e rigarlo e roderlo; altre ravvilupparsi e scomparire nel buio del loro scialle. E ancora, uomini tossire, altri aderire alle colonne e ai simulacri e altro ancora. Anche il podestà, vile, tenero, vergognoso in mezzo a quel lago di pianto, poggiato ad una colonna, piangeva: senza memoria, senza convinzione. E intanto - come chi desto a mezzo di un triste sogno vede, durandone l'errore, rompersi e dileguare le immagini dolorose – egli guariva dal suo interno male, si lavava, per così dire, della sua solitudine. Vide padre Anoia, con un leggero moto di sorpresa tutto quel piangere, lo scrutò incerto, lo osservò interessato e già stimandolo, - del resto non senza una buona dose di ragione - per un suo nuovo e personale successo, naturalmente gli piacque di sostenerlo e prolungarlo, mirabilmente, in questo, soccorso e quasi forzato dalla parola facile e sonora. Però disse: “sunt lacrimae rerum … e allora, fratelli e sorelle in Cristo … piangiamo … in quest'angolo perduto della Terra, da questo oscuro margine della Storia, in questa scheggia del Tempo, piangiamo: per l'amore reso e per quello negato, per i torti fatti e per quelli patiti, per il bene lontano e per il male vicino, per il bene vicino e il male lontano, fratelli e sorelle in Cristo piangiamo. Del nostro odio e del nostro amore, delle onte e delle offese, delle vendette e delle ire … fratelli, sorelle, piangiamo del nostro pianto….” Così predicava padre Anoia…Vincenzo Guarna(1) Daniello Bartoli (1608-1685). Altro scrittore e predicatore gesuita. La sua opera maggiore è la ISTORIA DELLA COMPAGNIA DI GESU' pubblicata tra il 1653 e il 1673. Interessanti anche le sue prediche, alcune raccolte in un Quaresimale che andò in gran parte perduto in un naufragio. I frammenti della predica di Padre Anoia riportati nel soprastante testo sono alcuni, mutuati dal Segneri (il primo, quello immediatamente successivo e il suo prolungamento: “ohimè che veggo”) e altri dal Bartoli (quello che ha inizio con “siamo qui giù tutti passeggeri e tutti….” e quello che compare subito dopo: “vi sarà avvenuto etc.”) Sono propri di Padre Anoia i restanti ossia quelli che servono da raccordo allo svolgimento del suo discorso o che prendono via via spunto dalle reazioni o condotte degli ascoltatori e fanno fronte o bordone ad esse.

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L'UOMO DI SIMILAUM

A Similaum, sul Carso, lungo i bordid'un ghiacciaio disciolto hanno trovatoun cadavere d'uomo dei primordiperfettamente intatto e conservato.Per ben cinquemila anni, e non è micapoco, quel corpo morto ora riapparsol'ha conservato intatto il gelo. Anticagelateria del Carso.

 DE BELLO SOMALO

A Mogadiscio è ferma la Legionefrancese, in strada. Passano personesu un autocarro. Spara il Legionario.E fa due morti, a scopo umanitario.

 COME BUSCETTA

La formula di Einstein, ieri, ha chiestoil professore ad un allievo. Questosi È mosso dal suo posto e se n'è andato.Sì, la sapeva. Ma non si è fidato.

 MODI DI DIRE

La lingua nel suo evolvere, - ha conclusoCesarotti - ubbidisce sempre all'USO,onde consegue, lì, cittadinanzaogni modo di dir detto ad oltranzaIn base a questa scienza delle lingueche l'USO esalta e su altro non distingue,correttamente ormai si può affermareche, in Italia, il primo a penetraredi COSA NOSTRA nella guardia accorta,fu il GIUDICE FALCONE E LA SUA SCORTA.

 LIBRO E MANETTE

Ne "La critica della ragion pura",testo fondamentale di cultura,sostiene Kant che vera conoscenzanon è quella che induce l'esperienza.Essa interviene solo quando questas'adegua ad una "forma" che hai gia' in testa.Succede come quando un Magistrato,solo per presunzione di reatoti indaga sotto, sopra, dentro e fuori.È il "giudizio sintetico a priori".

 FISCHIA IL SESSO

A causa della crisi degli alloggi,gli innamorati, in Russia, ancora oggitra pietroburgo e Mosca vanno a fottere,sul treno che viaggia, ivi, la notte.Naturalmente pagano il biglietto.È il "treno dell'amore", così dettoperchè nel suo percorso si usa faresesso, - per così dire - pendolare.In Italia il problema non si pone;e se lontano tu hai l'abitazionedal posto di lavoro, - allorchè vivimale lo stress di pendolare - quivil'alloggio, - se d'aiuto ti è un'amica -lo puoi trovare in men che non si dica.Farai, quindi, piazzato in quel locale,sesso - per dir così - residenziale.

 ROMA E MILANO

Quando parla la Chiesa si usa direche parla di Pietro. Questo, a Roma. Quandoparla Chiesa, a Milano, di rimandoDi Pietro tace, e preferisce agire.

 RICHIESTA AL PARLAMENTO L' AUTORIZZAZIONE A PROCEDERE PER IL VOTO DI SCAMBIO

Nella "premessa" il Giudice ha spiegatoche il voto chiesto ad un disoccupatoche spera in un lavoro, ossia in un posto,non vuol dire reato ad ogni costo.Il reato si ha se, di rimando,gli cerchi o trovi il posto. Invece, quando poite ne freghi, - beh, non è lo stesso.Non c'è reato, se lo hai fatto fesso.

 COERENZA

In quest'Italia, dove ognuno ha smessoda un giorno all'altro d'essere se stesso:di rubare, i politici; i banditidi delinquere, e fanno, ora, i pentiti;i comunisti d'esser comunisti;di essere craxiani i socialisti;di vendere tabacchi i tabaccaiche sono diventati giornalai;e, invece dei coglioni, oggi i missinimostran le cosce della Mussolini;e dove le puttane, se va bene,hanno le tette, ma si hanno pure il pene;in quest'Italia, con coerenza e onoreio non cambio, e rimango un fumatore.

 POST ATTENTATO

L'intento era spedire, per Natale,Leoluca Orlando Cascio nella tomba.Ma nulla se ne fece. Sul giornalesoltanto, è esplosa, adesso, l'autobomba.

 CHIAREZZA

Violante: "Ora ci dica, ma l'impresad'uccidere anzitempo Dalla Chiesa,chi la pensò? Chi la propose?" "Sa,- gli rispose Buscetta - una Entità".Sarà così che, giorno dopo giorno,grazie ai pentiti nuovi e di ritorno,finalmente, in Italia, si potràfare chiarezza e fare verità.

 ULTIME NOTIZIE

Se mai Cordova, a capo - per sventura -fosse arrivato di Superprocura,la Cupola, che lo ha in odio profondo,l'avrebbe, BUM, spedito all'altro mondo.L'ha salvato Martelli - ora è palese -spedendolo diritto a quel Paese.

 IMITAZIONE

Poi che con Alfa e Delta, un magistratogli assassini ha scoperto di Ligato,per condurre le inchieste, un suo collegasi è subito munito di un Omega.

 AVVENTURA METROPOLITANA

L'uomo coi baffi cauto si muoveva,cercando infaticabile. Cadevauna pioggia minuscola, leggera,una polvere d'acqua, quella sera.Entrava nello spaccio dei liquoriper uscirne, deluso, tosto fuori.Passandomi vicino, con gli sguardiquesto mi fece intendere: "Più tardi!"Io rimasi al mio posto con speranza.Passò una cane, una guardia di finanza.Si fece vivo, ma da un'altra parte,il cacciatore e si muoveva ad arte:svicolava, ondeggiava, si fermava.Scompariva, appariva. Ma cercava.Io rimanevo immobile al mio postodeciso a non mollare ad ogni costo.L'uomo sparve. Comparve ed, ora, avevaa lato un tipo equivoco. Cadevauna pioggia minuscola, leggera,una polvere d'acqua, della sera.Si divisero i due, tutt'ad un tratto.Il primo mi raggiunse, di soppiatto.E, alla fine, quel cercatore d'oromi consegnò una stecca di Marlboro.

 RINNOVARSI O PERIRE

Un mio amico, di nome Rinnovatoè un grand'esperto agricolo, chiamatoa stimare, sull'albero, castagneulivi e agrumi, in tutte le campagne.Egli, insomma, è un Perito, saggio e dotto;e un grave dubbio gli ha recato il motto"Rinnovarsi o perire" che adessoMartelli ha pronunciato nel congressosocialista, D'Annunzio riciclando:se egli fosse bisex, - si chiese quandolo seppe - oppure un mostro o un folle, datoche era Perito ed era Rinnovato.

 IL DUBBIO

Gli scaffali di tutti i tabaccaida molti giorni sono vuoti ormai.Si tenne Associazione. Ed oggi, questai suoi esercizi ha chiuso per protesta.Ti chiedo, in piena crisi di astinenza:"È una serrata, od una conseguenza?"

 MANI PULITE

Nel ristorante che al Duomo sta dietro,entrò ridente il giudice Di Pietro:subito il camerier, - rosse le guance -gli confessò che aveva preso mance.Cordova e ... Cordova e Tina Anselmi son convintiche i Massoni deviati non son vinti,che Gelli trama ancor coi suoi affiliati,e han fondato il Partito dei Trombati.

 FRATELLI D'ITALIA

Hanno un bel dire, quelli della Lega;l'Italia vera è unita, e non si piega,e non si spezza. Dal risorgimentosi è ben consolidato il suo cementointorno a Idee, Valori, Fedi, e tantelacrime e sangue. L'ultimo collante,quello che saprà reggere ad ogni urto,è l'unità d'Italia intorno al furto.

 LA PALOMA BIANCA

Su Sarajevo nevica, all'arrivodei Pacifisti. Il volto, essi, hanno stanco,in mano un ramo recano d'ulivoe marciano il quel turbine di bianco.Nevica a Sarajevo a tutto campo.Rari i passanti nelle strade, tristi,infagottati, presi senza scamponella morsa dei Serbi. I Pacifistili esortano alla Pace, alla Pazienza,porgon loro l'ulivo in atto lieve.Nevica a Sarajevo. La presenzadei pacifisti insudicia la neve.

 MANI SEGRETE

Sabato al ristorante "Il gladiatore"entrò Cordova, il grande inquisitore.Accorse il cameriere. E quello, orsù,gli sequestrò la lista, ossia il menù.

 Qui si fa l'ITALIA

Leggere i quotidiani nelle scuole,anche le elementari, oggi si suole,perchè l'attualità è pedagogia.Passando, dopo questo, a Geografia,l'altro giorno un maestro elementare,"Cos'è l'Italia?" - chiese a uno scolare.Posato dentro al banco il suo giornale,questi rispose: "Una bicamerale".

 SENECTUS IPSAST MORBUS

"Un archivio vivente", è definitoil graduato della Poliziao dei Carabinieri che peritoin agguato di mafia o d'altro sia.Questo serve per dire che l'Ucciso,di mafia e malaffare del suo ambienteaveva un quadro storico e preciso.Come capita a me che, ultimamente,mi sorprendo a pensare, molto spesso,con lucida memoria, al mio passato.Ne rassemblo i frammenti. E di me stesso,son l'archivio morente diventato.

 R.A.I. di tutto, di più

Determinato a fare pulizianel suo Partito, la Demoscrazia,Martinazzoli, a Reggio, una gran bravapersona ci ha mandato: Nuccio Fava.Già direttore del "Telegiornale",e poi della "Tribuna elettorale",Fava dirige adesso la strutturadella "televisione-spazzatura".

 ATTENUANTI

Risulta dalle carte del processoche, nelle trattative con De Micoper le mazzette, Nicolazzi spessogli faceva lo sconto come amico.Il Tribunale, che ne ha preso attoe che a due anni ed otto mesi appenal'ha condannato, subito gli ha fattolo sconto di due anni sulla pena.

 L'OVVIO DEL POPOLO

A differenza del predecessoreche era uno straripante esternatore,il nuvo Capo dello Stato ha un grandesenso della misura. Non si espande,- come faceva il primo - non ondeggia,non pianta qui una grana e lì una scheggia,non copre, nè rivela, nè minaccia e,sovente, di sè non lascia traccia.In presenza di un grande avvenimento,d'un fatto eccezionale, il suo Interventonon manca, tuttavia. Ma è misurato,come si addice a un Capo dello Stato:una parola icastica, un concettobreve ma formidabile. Perfetto.Ti colpisce, ogni volta che Si espone,la Sua forza, la grande decisione,il rigore che ha in Sè, l'austeritàe, ancor di più, l'originalità.Prendi ad esempio, quanto è capitatoin coda alla vicenda Ligato.Ebbene, a un giornalista che gli ha chiestodi commentare il clamoroso arrestodi Niccolò, Quattrone e di Battaglia,ha detto, in forma intrepida; "Chi sbagliadeve pagare". - A Napoli, saprai,non volle trattenersi e disse: "Guai!"Sopravviene il suicidio Signorino?"Devo pensarci, sopra, un attimino!"Di recente a un convegno si è recatodi altissimi esponenti dello Stato.Proprio quel giorno, sulla Capitales'abbatteva una pioggia torrenziale.Quando, puntuale, giunse alla riunione,accolto da una fervida ovazione,guardò a destra, a sinistra e in ogni dove,fece un viso severo, e disse: "Piove!".

 NOMEN OMEN

Per ragioni di metrica o di rimausavano i poeti metter primad'una parola, un'altra; o permutared'un termine l'accento o una vocale.Avvien così d'imbattersi in 'palpèbra'per 'pàlpebra', e, per 'tenebra' in tinèbra'.Tinèbra. Questo nome ha il magistratocui luce spetta far sull'attentatodi via Amelio a Palermo, che ha distruttoBorsellino e la scorta. Ho detto tutto.

 CONSIGLI UTILI

Una madre parlava con la figlia:"Ascolta quel che mamma ti consiglia!Con questo amore nuovo, amore grande,finisce che ti perdi le mutande!" Ma la figlia la volle assicuraree disse, interrompendo il suo parlare:"Per evitare quel che dici tu,io le mutande non le porto più".

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